La propaganda del governo investe i non allineati: Ong, tecnici,
giornali. E prova a trasformare i fatti con la semantica
Marco Damilano, L’Espresso
23 luglio 2018
È l’estate delle
parole. Parole violente e parole sbiadite. Parole che si smentiscono da sole,
come quelle del presidente americano Donald Trump che a Helsinki attacca
l’intelligence Usa e si affida a Vladimir Putin, salvo tornare in patria e
affermare davanti alle telecamere che no, è stato frainteso perché c’era una
doppia negazione nella sua dichiarazione e non è stato capito. Parole che
puntano a trasformare la realtà: chiami il decreto “dignità” e per concessione
di Stato i precari non dovrebbero esserci più, definisci quelli libici “porti
sicuri” e i migranti vedrete che spariranno, almeno dal nostro orizzonte.
Poi succede che
dopo settimane di numeri sventolati da una parte e dall’altra, statistiche,
puntini radar intercettati nel Mediterraneo, arriva un nome, un volto, uno
sguardo che non si può proprio dimenticare. È quello di Josefa, la donna venuta
dal Camerun e salvata dalla nave della ong spagnola Open Arms dopo due giorni
di naufragio, accanto a un’altra donna e a un bambino di quattro anni. «Sono
scappata dal mio paese perché mio marito mi picchiava. Mi picchiava perché non
potevo avere figli», ha raccontato a Annalisa Camilli di “Internazionale” che
l’ha intervistata sul ponte della Open Arms. «Siamo stati in mare due giorni e
due notti. Sono arrivati i poliziotti libici e hanno cominciato a picchiarci».
Nei suoi occhi c’è
il nulla, l’orrore che riassume le storie di tutti. E al tempo stesso la voglia
di vivere che l’ha portata fin qui. “I sommersi e i salvati”, li ha definiti il
quotidiano “Avvenire” il 18 luglio in prima pagina, con il titolo del libro di
Primo Levi. In quel saggio, uscito nel 1986, il capitolo centrale riguarda la
zona grigia, la terra di mezzo tra i carnefici e le vittime, quel mondo ampio
composto da «persone grigie, ambigue, pronte al compromesso», veloci a
conquistare i piccoli vantaggi, i privilegi concessi da una frequentazione anche
minima con chi detiene il potere, nel lager e fuori. Ma la Zona grigia è ancora
più larga. Comprende gli indifferenti. E la parte di opinione pubblica più
vasta che non ha tempo, non ha voglia, non ha strumenti per capire. Non aveva
tempo, in fondo, neppure la sottosegretaria Lucia Borgonzoni, stava perdendo il
treno, non poteva aspettare di ascoltare l’intervento dell’arcivescovo di
Bologna Matteo Zuppi. Si è fatta rimproverare perfino dal padre, ma se non ha
tempo lei, figuriamoci i suoi elettori. A loro arriverà qualche post sui
social, uno slogan distratto, una parola d’ordine su cui costruire la
propaganda di giornata.
Così, nell’Italia
dell’estate 2018, capita di leggere sulla prima pagina di un quotidiano ormai
governativo che l’annegamento della donna e del bambino e il salvataggio di
Josefa siano un «giallo». Succede che il ministro dell’Interno liquidi
l’accaduto con la categoria della «fake news». Così come, su tutt’altro
versante, l’obbligo della Lega di restituire allo Stato 49 milioni di euro
perché oggetto di truffa secondo la Cassazione diventa in una trasmissione
televisiva una semplice «tesi», contrapposta a un’altra tesi. Tesi che si
possono opinare, dunque, non notizie o fatti.
La guerra delle
parole e della propaganda investe, soprattutto, i poteri di controllo, la
stampa non allineata, le organizzazioni non governative, gli istituti tecnici.
Le contro-inchieste giornalistiche si fanno non sui nuovi governanti e sulle
loro reti internazionali, ma sulle Ong che operano nel Mediterraneo, si va a
caccia dei loro rapporti occulti con gli scafisti, vanno smascherate, è da un
anno che il processo mediatico è in corso, nonostante l’assenza di prove,
indizi, conclusioni giudiziarie. Si producono inchieste giornalistiche sui
non-governativi, non sull’operato del governo di turno, il centrosinistra ieri
come i gialloverdi oggi. Si mettono sotto accusa i senza potere, non i potenti.
E così, il
dibattito sulle nuove norme sul lavoro volute dal ministro e vicepremier Luigi
Di Maio, ribattezzate “Decreto dignità”, non riguarda l’efficacia del
provvedimento per combattere la precarietà, proposito sacrosanto, ma il
presunto complotto del presidente Inps Tito Boeri, colpevole di aver inserito
nella relazione tecnica che accompagna il testo la stima di ottomila posti di
lavoro perduti all’anno nel prossimo decennio. E sulla rete dilagano liste di
proscrizione contro i giornalisti non allineati, insulti, minacce,
l’immancabile promessa di togliere ai quotidiani e ai periodici il
finanziamento pubblico (questa sì una fake news, come forse è riuscito
confusamente ad ammettere perfino il sottosegretario M5S Vito Crimi in una
lettera al direttore di “Repubblica” Mario Calabresi).
La Zona grigia
italiana si sta allargando. Un po’ per il tradizionale opportunismo nazionale,
che fa confondere il governante di turno per sommo statista, specie in una
stagione di nomine: Cassa depositi e prestiti, Rai, Csm, Ferrovie, e siamo solo
all’inizio della Grande Pacchia. Un po’ perché pesa come in nessun’altra
stagione repubblicana l’assenza di una opposizione politica e parlamentare. Sul
fronte di Forza Italia, la nomina di Alberto Barachini, catapultato
direttamente dalla conduzione tg Mediaset alla presidenza della commissione di
Vigilanza Rai, non è un dettaglio perché testimonia la resa del fu
partito-azienda berlusconiano, venticinque anni dopo la sua nascita, e il suo
addio a un ruolo centrale nella politica italiana: meglio coltivare un futuro
da piccola lobby, predisposta a chiedere piccoli favori al governo Di
Maio-Salvini, piuttosto che costruire un partito moderato, europeo, liberale,
popolare eccetera, aggettivi che non hanno nessun senso per Berlusconi,
transitato da Licio (Gelli) a Licia (Ronzulli) e ciascuno giudichi se è un
miglioramento. Sul fronte del Pd, in questo numero proviamo a sorriderci su con
Susanna Turco che racconta i sette nani democratici: tutti i dirigenti, a
partire dal segretario Maurizio Martina, per finire agli aspiranti segretari
come Nicola Zingaretti, parlano dell’urgenza di una ripresa se non si vuole
morire. Ma intanto la ripresa non c’è e la Zona grigia si allarga sempre di
più, in mancanza di rappresentanza.
La Zona grigia
italiana è quella della criminalità organizzata. La Borghesia Camorra di Napoli
che ci racconta Giovanni Tizian nelle pagine che seguono: all’ombra di Gomorra
e dei bambini della paranza, i professionisti dei quartieri alti si mescolano
ai notabili del crimine. La Roma dei Casamonica, denunciata
da una giornalista coraggiosa come Floriana Bulfon. La Zona grigia dei
dubbi, dei pensieri che non condividiamo e delle risposte che non abbiamo. Ne
parliamo in un lungo incontro con Zerocalcare e con Michela Murgia, due artisti
che lavorano con le parole e con i disegni, e con i loro corpi gettati nella
mischia, le loro vite, l’intelligenza e la sensibilità con cui sanno cogliere e
decifrare i segnali del presente, con un’intransigenza diretta prima di tutto
verso se stessi.
Le parole che
servono a scardinare le semplificazioni e le banalizzazioni, da qualunque parte
provengano, anche da chi dimostra di avere le migliori intenzioni.
Gli occhi di Josefa
disperdono i luoghi comuni, i porti sicuri, la retorica dell’Italia che ha
cambiato l’Europa e anche quel tanto che c’è di melenso, dolciastro, modaiolo,
ripetitivo in chi sventola la bandiera opposta. E fanno luce nella Zona grigia,
costringono a decidere, ancora una volta, da che parte stare.
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