Massimo Villone, Libertà e
Giustizia
28/07/2018
Lesa maestà . Una brutta
sentenza. Anzitutto, per la “continenza” – concetto peraltro caro alla stessa
Corte – con cui si mette la mordacchia alla libertà di espressione. Ancora, per
la personalizzazione sul diritto individuale dell’amministratore delegato,
ovviamente invece simbolo espressivo di una politica aziendale. Infine, per la
ritenuta idoneità della espressione del pensiero, non accompagnata da alcun
atto di violenza, a evocare uno «scontro sanguinario», tale da travalicare i
limiti della «democratica convivenza civile».
È stata depositata il 6 giugno
2018 la sentenza 14527/18 con cui la Cassazione ha accolto il ricorso FCA
contro la Corte di appello, che aveva disposto la reintegrazione nel posto di
lavoro di cinque operai licenziati per aver inscenato l’impiccagione e il
funerale di Marchionne. Il contesto era dato dalla protesta per il suicidio di
alcuni lavoratori addebitato a scelte aziendali. Con la pronuncia della
Cassazione diventa definitivo il licenziamento degli operai.
La Corte di appello aveva accolto
il ricorso contro il licenziamento, in specie considerando la rappresentazione
scenica, ancorché nella forma di satira particolarmente incisiva, come
espressione di un diritto di critica e di manifestazione del pensiero. La
Cassazione ha invece affermato che “la rappresentazione scenica … ha esorbitato
dai limiti della continenza formale attribuendo all’ amministratore delegato
qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli … travalicando, dunque, il limite
della tutela della persona umana richiesto dall’art. 2 della Costituzione … “ e
“i limiti di rispetto della democratica convivenza civile, mediante offese gratuite,
spostando una dialettica sindacale … su un piano di non ritorno che evoca uno
scontro violento e sanguinario, fine a se stesso, senza alcun interesse ad un
confronto con la controparte, annichilita nella propria dignità di
contraddittore”.
Una brutta sentenza. Anzitutto,
per la “continenza” concetto peraltro caro alla stessa Corte con cui si mette
la mordacchia alla libertà di espressione. Ancora, per la personalizzazione sul
diritto individuale dell’amministratore delegato, ovviamente invece simbolo espressivo
di una politica aziendale. Infine, per la ritenuta idoneità della espressione
del pensiero, non accompagnata da alcun atto di violenza. a evocare uno
“scontro sanguinario”, tale da travalicare i limiti della “democratica
convivenza civile”.
Ne viene che il lavoratore può
ben lottare per i propri diritti, ma sempre dando il dovuto rispetto al
padrone, anche in effigie. Guai ad annichilirlo nella sua dignità di
contraddittore. Come se poi fosse mai davvero possibile verso il soggetto forte
del rapporto contrattuale. Qui alla morte finta del padrone si dà maggior peso
che alla morte vera del lavoratore. E suscita solo ilarità l’idea che nella
specie la dignità personale e la reputazione di Marchionne siano state in
concreto lese.
Per fortuna c’è un vasto mondo
oltre la Cassazione. Da ultimo, la Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU)
ha condannato la Spagna per la sanzione penale inflitta dai giudici spagnoli, e
assolta da ogni censura dal giudice costituzionale, a due dimostranti che
avevano incendiato una fotografia dei reali a testa in giù nell’ambito di una
manifestazione contro la monarchia (Stern Taulats et Roura Capellera c.
Espagne, Sez. III, 13 marzo 2018). La condanna della CEDU è stata motivata con
la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che
protegge la libertà di espressione. Non è, del resto, la prima volta: v. in
specie Otegi Mondragon v. Spain, Sez. III, 15
marzo 2011 . E va anche ricordata
la trentennale battaglia negli Stati Uniti, a partire dal landmark case Texas
v. Johnson, 491 U.S. 397 (1989), sul dare fuoco alla bandiera americana come
libertà di espressione.
La Cassazione ci insegna che la
difesa dei diritti e delle libertà non può essere subappaltata in via esclusiva
alla magistratura. In passato il contributo dei giudici è stato talvolta
rilevante, come ad esempio per la fecondazione assistita, le unioni tra persone
del medesimo sesso, il fine vita. Ma non è così da ultimo per il lavoro, come
dimostrano questa sentenza e altre sui licenziamenti economici e disciplinari.
La magistratura nel suo complesso rispecchia il paese, e subisce anch’essa
l’impatto di una deriva di destra. Rimane dunque indispensabile la battaglia
politica e culturale di sinistra, individuale o collettiva, di testimonianza o
di lotta. Ed è urgente ritrovare la difesa senza se e senza ma dei diritti del lavoro, al di
fuori di mosse poco più che di immagine come il cd decreto dignità.
Se dipendesse da sentenze come
quella del 6 giugno, potremmo anche tornare alla prima rivoluzione industriale
e alle sweatshops, consegnate alla storia dalle lotte dei lavoratori. Se
talvolta è mancato il dovuto rispetto per i padroni, ce ne scusiamo.
IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP.
EDITRICE, 04.07.2018
Appello: Obbligo di fedeltà: per
la libertà di parola e l’eguaglianza di fronte alla legge
Due anni fa lanciammo una
mobilitazione contro il licenziamento di cinque operai cassintegrati della Fiat
di Pomigliano “colpevoli” di aver espresso il dolore e la rabbia per il suicidio
di tre compagni di fabbrica, privati – non diversamente da loro – di ogni
prospettiva di occupazione. Ci parve che gli amministratori della giustizia
avessero rimesso il mondo sul suo asse, perché la Corte d’appello, smentendo il
Tribunale del lavoro, diede ragione a Mimmo Mignano e ai suoi quattro
coraggiosi compagni, ordinando alla FiatChryslerAutomobiles il pieno reintegro.
Cosa che però la FCA non fece, limitandosi a versare il salario senza
permettere ai cinque di varcare i cancelli della fabbrica, quasi fossero
pericolosi criminali, mentre invece portò la vicenda in Cassazione.
Dopo un tempo lunghissimo – due
anni, che i cinque hanno trascorso in attesa e sospensione nel vuoto – il 6
giugno 2018 la Cassazione ha reso nota la sentenza con cui accoglieva il punto
di vista aziendale, sancendo l’obbligo di “fedeltà” all’azienda fuori
dall’orario di lavoro.
Secondo i giudici di Cassazione,
i cinque avrebbero posto in essere «comportamenti che compromettevano sul piano
morale l’immagine del datore di lavoro», venendo meno all’«obbligo di fedeltà a
carico del lavoratore subordinato» richiamato dall’articolo 2105 del Codice
civile. Questo a dispetto del fatto che l’articolo in questione dispone –
semplicemente – che «il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per
conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare
notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o
farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio».
Stiamo parlando di una norma
studiata per salvaguardare gli interessi dell’azienda rispetto ad eventuali
competitori, che vieta al dipendente di mettersi in concorrenza con il proprio
datore di lavoro, legandolo alla riservatezza sui segreti aziendali. Come può
una simile disposizione essere indirizzata a operai che, con mansioni esecutive
spesso limitate a una sola linea di produzione, o al massimo a un reparto,
nemmeno lontanamente possono «trattare affari per conto proprio o di terzi», né
tantomeno conoscere «notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di
produzione»?
La sentenza ratifica una ratio
secondo cui non conta la sofferenza dei deboli ma l’immagine pubblica del
padrone; in cui non si protegge l’onorabilità dei suicidi ma quella della
controparte, indipendentemente dall’immane disparità del rapporto di forza.
Anno dopo anno, in Italia è stata
intaccata la fondamentale funzione esercitata dalla disciplina del diritto del
lavoro, diretta a bilanciare lo squilibrio nel rapporto di forza fra
imprenditore e dipendente.
Privati persino del diritto di
protestare, di gridare il proprio dolore e offesa, cosa lo Stato intende
lasciare ai suoi cittadini cassintegrati, licenziati, disoccupati, oltre
all’abisso di gesti autolesivi?
Contro questa sentenza, che apre
pericolose contraddizioni sull’interpretazione dell’obbligo di fedeltà cui
sarebbero assurdamente sottoposti i dipendenti aziendali, intendiamo sostenere
non solo Mimmo Mignano e i suoi compagni, ma i numerosi lavoratori licenziati
per aver espresso pubblicamente opinioni critiche sulle scelte del proprio
datore di lavoro, benché fuori dall’orario e dalle sedi di impiego. Una simile
interpretazione adatta ai casi concreti i principi generali della fedeltà e
dell’auto-dominio, e così facendo sancisce l’asservimento dei lavoratori, li
condanna al silenzio, li rende ricattabili nella sfera pubblica, riduce la
persona umana al mero scambio lavorativo appropriandosi anche della parte di
esistenza che è fuori dall’orario di lavoro, disconosce la tutela della dignità
dell’uomo sancita dalla Costituzione.
Le recenti riforme del lavoro
hanno modificato le relazioni tra lavoratori e datori di lavoro, indebolendo le
tutele dei primi a favore dei secondi. Quanto sta accadendo non è solo il
risultato di cambiamenti normativi ma l’indice di una profonda involuzione
culturale, politica e umana, che minaccia lo stesso sistema democratico del
nostro Paese.
La sentenza contro i cinque della
FCA segna un salto simbolico al quale intendiamo opporci, perché va a colpire
operai che hanno attuato una protesta sindacale utilizzando espressioni
satiriche, per quanto aspre, all’unico scopo di dar voce all’angoscia
esistenziale che nasce dalla precarietà del lavoro, dall’umiliazione
dell’essere considerati scarti dell’umanità, dal dolore per i numerosi compagni
che negli anni, alla Fiat e in tutta Italia, si sono suicidati per la perdita
del lavoro.
Anche noi crediamo nell’obbligo
di fedeltà: quello alla dignità di chi si oppone, e quello alla memoria di chi
soccombe. Per questo lanciamo una campagna con la quale chiediamo al
Legislatore di regolamentare la normativa sull’obbligo di fedeltà limitandone
l’interpretazione a ciò che effettivamente dice, cioé la difesa dell’azienda
rispetto alla concorrenza, e chiediamo alla Cassazione di revocare e correggere
l’attuale interpretazione.
L’appello vede tra i promotori
Paolo Maddalena, Massimo Villone, Lugi De Magistris, Massimo Cacciari, Guido
Viale, Daniela Padoan, Erri De Luca, Lorenza Carlassare, Lugi Ferrajoli,
Francesco Pallante, Livio Pepino e tanti altri….
Nessun commento:
Posta un commento