Dal
Parlamento ai consultori e ritorno: il dibattito pubblico attorno alla legge,
il boicottaggio e la volontà popolare
Cecilia D’Elia, il Manifesto
24/07/2018
Il 22 maggio 1978 viene
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale la legge 194 e l’aborto in Italia, a certe
condizioni, diventa legittimo. Da allora questa legge è diventata il muro che
argina un mai sopito tentativo di rimessa in discussione della possibilità
delle donne di interrompere una gravidanza. Al punto che persino i pro-life
nazionali più che chiederne l’abrogazione sono soprattutto impegnati a boicottarla,
attraverso l’estensione dell’obiezione di coscienza. Mentre intere generazioni
di femministe, di ginecologhe, operatori e medici hanno dedicato gran parte
delle loro energie alla sua applicazione.
L’impianto della 194 riprende la
sentenza della Corte Costituzionale n.27 del 1975 che aveva dichiarato non
punibile l’aborto terapeutico, riconoscendo un importante principio di non
equivalenza tra il diritto alla vita di chi è già persona e quello di chi
persona deve ancora diventare. Fonda infatti la possibilità di interrompere una
gravidanza sul diritto alla salute psicofisica della donna gestante. Questa
depenalizzazione il Parlamento la inserì in un testo che intende tutelare la
maternità responsabile, non a caso rilancia il ruolo dei consultori familiari,
e attribuisce esclusivamente al servizio pubblico la presa in carico della
donna.
L’approvazione è il frutto di
lunghe e difficili discussioni parlamentari e di grandi mobilitazioni, che
coinvolsero gran parte del movimento delle donne. È grazie a questa vera e
propria lotta politica che il principio dell’autodeterminazione della donna, il
riconoscimento che spetti a lei la scelta di interrompere o meno la gravidanza,
è diventato un contenuto della legge. Ma nelle ultime e concitate fasi di
discussione erano state introdotte due modifiche. Una sul coinvolgimento del
padre, che fa il suo ingresso nella decisione, salvo parere contrario della
donna. Nella prima formulazione veniva coinvolto se richiesto dalla donna.
L’altra era l’abolizione della decisione autonoma delle minorenni.
Per questi limiti, uniti alla
possibilità del ricorso all’obiezione di coscienza, alla sua approvazione la
194 non piacque al movimento delle donne, neanche a quella parte che più si era
spesa per la legalizzazione e che aveva cercato di influenzare la scrittura
delle nuove norme. Era l’area legata ai gruppi per la salute, che aveva
sperimentato, autogestito e diffuso quelli che, con la legge istitutiva del
1975, sarebbero diventati i consultori pubblici. Soprattutto da questo mondo
era nato il principio di autodeterminazione, elaborato non come semplice
diritto di scelta, ma vera e propria presa di coscienza sul proprio corpo.
Era critica anche l’Unione donne
italiane, storica organizzazione delle donne della sinistra che usciva da quegli
anni trasformata dall’incontro con il femminismo e che aveva svolto un
importante ruolo di mediazione per modificare la posizione del Pci a favore
della decisione della donna.
La 194 da subito conosce molti
ostacoli, soprattutto per la diffusione dell’obiezione. Nascono i «Comitati per
l’applicazione della legge 194» per incalzare le Regioni su di essa e sulla
diffusione dei consultori.
Presto in discussione tornano le
stesse norme. Nel 1979 il partito radicale aveva depositato una richiesta di
referendum per la completa depenalizzazione.
L’anno dopo il Movimento per la
Vita deposita due richieste, una “massimale”, che di fatto abolisce la
possibilità di abortire e una “minimale”, che consentiva solo l’aborto
terapeutico. Nel 1981 la Corte costituzionale dichiara ammissibile il
referendum radicale e quello minimale del Movimento per la Vita. La Democrazia
Cristiana e le gerarchie ecclesiastiche si schierano a favore di quest’ultimo.
Nascono i «Coordinamenti per
l’autodeterminazione della donna» formati da collettivi e Udi che, pur
continuando a criticare il testo della 194, rifiutano entrambi i referendum,
scegliendo di difendere la possibilità che le interruzioni di gravidanza
avvengano solo in strutture pubbliche e che sia gratuito. Accanto a questi ci
sono i «Comitati in difesa della 194» composti dalle donne dei partiti che
hanno votato la legge.
I referendum si tennero il 17 e
18 maggio del 1981. La campagna referendaria è un tornante importante della
storia dell’aborto. Siamo nello stesso anno dell’abrogazione del delitto
d’onore. Sono passati solo dieci anni dalla sentenza della Corte Costituzionale
che aveva cancellato il divieto della propaganda e dell’uso degli
anticoncezionali. Fu una grande occasione di dibattito pubblico su aborto,
sessualità, maternità responsabile, scelte procreative. Toni e modi di quella
discussione hanno contribuito a definire la cultura diffusa delle italiane e
degli italiani su un tema fondamentale per l’autonomia delle donne.
Entrambe le proposte referendarie
furono respinte, quella radicale con 11,5% sì e 88,5% no, quella del Movimento
per la Vita con 32% sì e 68% no. Divenne così evidente che la regolamentazione
legale dell’aborto aveva il consenso della gran parte delle italiane e degli
italiani, a qualunque latitudine vivessero. Non era successo nemmeno per il
divorzio: in quel referendum il sud aveva votato per l’abrogazione. Questa
volta no. Le donne conoscono da sempre l’aborto clandestino. Hanno svelato
l’ipocrisia di un paese che vieta qualcosa, ma di fatto convive che le morti
causate dalla clandestinità.
Nel fronte del No il richiamo
all’aborto come dramma sociale, di cui la donna era vittima, aveva convissuto
con la domanda femminista di libera scelta rispetto alla maternità. In qualche
modo la prima immagine finiva per ridimensionare l’autodeterminazione a un
beneficio particolare, riconosciuto alle donne che non sono in grado di
affrontare la gravidanza. Questa ambivalenza nella discussione sull’aborto è
tutt’oggi presente. Ma è indubbio che abrogando il reato, facendo emergere
dalla clandestinità l’aborto e lasciando la decisione finale alla donna, la 194
ha rappresentato un passo indietro del controllo statale sul corpo femminile e
il riconoscimento di una competenza delle donne. Non a caso siamo ancora a lottare
per la sua applicazione.
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