La Corte d'Assise conferma che quel dialogo indusse Cosa Nostra
a compiere nuovi eccidi
Lorenzo Baldo, Antimafia
2000
23 luglio 2018
E’ ferma convinzione
della Corte che senza l'improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza
l'apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla
minaccia al Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione
frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere
vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe
inevitabilmente esaurita con l'arresto di quest'ultimo nel gennaio 1993”. E’
decisamente un record quello stabilito oggi dalla Corte d'Assise di Palermo.
Che, nei 90 giorni previsti per legge, ha depositato le motivazioni della
sentenza sulla trattativa Stato-mafia. Basterebbe questo passaggio per
comprendere l’importanza storica di questa sentenza. L’eccezionalità di depositarla
proprio il giorno dell’anniversario della strage di via D’Amelio rappresenta
inoltre un segnale inequivocabile. Che immancabilmente si pone di contraltare
alle strumentali delegittimazioni nei confronti del pool di Palermo, in
particolare verso il pm Nino Di Matteo, la cui persona è stata ingiustamente
accostata al capitolo del depistaggio delle prime indagini sulla strage di via
D’Amelio. Ma quelle che contano ora sono le pagine della sentenza firmata dal
Presidente della Corte d'Assise Alfredo Montalto, dal giudice a latere Stefania
Brambille e da sei giudici popolari.
L’estrema gravità
Per spiegare “la
gravità dei fatti ricondotti alla fattispecie criminosa per la quale va
riconosciuta la responsabilità penale degli imputati condannati” i giudici
entrano nel dettaglio. Per farlo focalizzano il fattore temporale e cioè quando
si è realizzata questa trattativa Stato-mafia: “all'indomani di una delle più
gravi stragi della storia della Repubblica, qual è stata quella di Capaci, e
mentre venivano reiterate non meno gravi stragi (da quella di via D'Amelio sino
a quelle del 1993, senza dimenticare il tentativo dello stadio Olimpico di Roma
che, se fosse riuscito, avrebbe verosimilmente messo definitivamente in
ginocchio le Istituzioni), sia per le complessive modalità dell'azione tipiche
del ricatto mafioso elevato qui, però, all'ennesima potenza”. Non ha alcuna
remora la Corte d'Assise quando evidenzia il “danno” e il “pericolo” che questa
trattativa ha comportato alle Istituzioni “sia per le materiali conseguenze che
ne sono derivate (non solo le stragi, ma anche gli innumerevoli attentati
omicidiari che hanno caratterizzato il biennio 1992-1994 tutti collegati, a
vario titolo, alla strategia mafiosa che, parallelamente alla minaccia, mirava
ad ottenere il cedimento dello Stato), sia per la compromissione del
funzionamento delle più alte Istituzioni preposte alla vita democratica del
Paese fortemente influenzate dall'incombente minaccia mafiosa”.
I “salvatori della
Patria”
Vengono di seguito
ricordati alcuni passaggi delle arringhe dei difensori dei Carabinieri
imputati: Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Era stato ritenuto
che la specifica “iniziativa” dei loro assistiti (i contatti e il dialogo con
Cosa Nostra, ndr) avrebbe “scongiurato più gravi lutti allo Stato” e quindi
avrebbero dovuto meritarsi il riconoscimento di “salvatori della Patria”. Nulla
di più falso. “E’ ferma convinzione della Corte - si legge nel documento - che
senza l'improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l'apertura al
dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al
Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con
lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere vendicativo
riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente
esaurita con l'arresto di quest'ultimo nel gennaio 1993”. I Giudici ribadiscono
quindi che “in assenza del precedente segnale di cedimento dello Stato
percepito dai mafiosi (percezione determinata unicamente dall'azione dei
Carabinieri che dicevano - o facevano credere - di essersi mossi a nome del
Governo), non avrebbe trovato terreno fertile la speranza di potere ottenere
benefici dall'azione stragista che sino quel momento aveva prodotto soltanto
l'inasprimento del regime carcerario e, appunto, l'arresto di Salvatore Riina”.
Per poi sottolineare con forza: “E, invece, al contrario, è stata proprio la
constatazione che le stragi del 1992 avevano smosso qualcosa
nell'apparentemente granitica fermezza che da qualche tempo, grazie all'impulso
incessante di Giovanni Falcone, il Governo della Repubblica aveva manifestato e
stava attuando, che ha reso possibile ipotizzare che qualche altro ‘colpo’
(cioè qualche altra strage, quali quelle che, poi, furono effettivamente
realizzate nel corso del 1993) avrebbe potuto fare crollare la resistenza
statuale”. Siamo di fronte ad un terribile dato oggettivo: i morti delle stragi
del ‘93 potevano essere evitati. Per farsi un’idea di quell’orrore basta pensare
ai quattro componenti della famiglia Nencioni, tra cui due bambine di 8 anni e
50 giorni. Tutti morti nella strage di Firenze assieme al giovane studente
Dario Capolicchio: uccisi dalle bombe di un dialogo Stato-mafia
Giano Bi-fronte
E’ il volto di un
Giano Bi-fronte quello che riaffiora nelle pagine della sentenza. Da una parte
Cosa Nostra nella persona di Leoluca Bagarella condannato a 28 anni di
reclusione. Per lui i Giudici scrivono testuale: “Trattandosi dell'alter ego di
Salvatore Riina col quale ha condiviso tutte le strategie sanguinarie e,
specificamente, l'intransigente linea del ricatto allo Stato senza alcun
cedimento sulle condizioni che il medesimo Riina aveva posto, non potendo
neppure immaginarsi altra minaccia al Governo più grave di quella che è stata
attuata nel caso in esame”. Dall’altro lato c’è il volto dello Stato
impersonato in primis dagli ex generali dei Carabinieri Mario Mori e Antonio
Subranni, condannati entrambi a 12 anni di reclusione. Per Subranni i Giudici
parlano del suo “ruolo di primo ideatore dell'istigazione al reato e per Mori
del ruolo essenziale svolto per l'attuazione della condotta criminosa, nonché
della personalità negativa emersa sia, specificamente, nella vicenda Bellini,
sia, in generale, per il suo ‘modus operandi’”.
Reticenze e falsità
“Numerose sono le
testimonianze, acquisite nel corso dell'istruttoria dibattimentale, per le
quali, come si è visto nelle motivazioni di questa sentenza, sono emersi forti
dubbi - ed, in alcuni casi, l'assoluta certezza - di reticenze e di falsità
rispetto ad altre contrastanti emergenze probatorie”. Ed è leggendo questo
ulteriore passaggio che tornano in mente le tante deposizioni di ex potenti
“smemorati di Stato” a dir poco vergognose. I Giudici ribadiscono che “tutti i singoli
casi sono stati di volta in volta evidenziati” e quindi i pm valuteranno “caso
per caso”. L’ipotesi di nuovi procedimenti penali per tutti coloro che hanno
mentito spudoratamente è più che mai valida. Ma in un’Italia dove l’imp
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