Dalla sostituzione
dei vertici del Dap alle mancate proroghe
Aaron Pettinari,
Antimafia 2000
23 luglio 2018
Dopo le stragi di
Capaci e via d'Amelio, nonostante l'arresto di Riina, spinta da quel dialogo
aperto tra i carabinieri ed i mafiosi che portò alla convinzione che le stragi
effettivamente "pagassero", anche nel 1993 l'attacco allo Stato da
parte di Cosa nostra proseguì in tutta la sua efferatezza. Via Fauro a Roma,
via dei Georgofili a Firenze via Palestro a Milano e le basiliche romane di San
Giovanni e San Giorgio al Velabro, sono i messaggi che la mafia inviava
all'esterno per ottenere dei benefici, in particolare in materia di carcerario
e contro quel 41 bis, applicato ai boss immediatamente dopo la morte di
Borsellino.
Nelle motivazioni
della sentenza depositate nei giorni scorsi i giudici della Corte d'assise
mettono in fila i vari passaggi che dapprima hanno portato alla sostituzione
dei vertici del Dap, quindi, nel novembre 1993, alla mancata proroga di 334
decreti "41 bis" ad altrettanti boss mafiosi, da parte del ministro
della giustizia Conso (che in precedenza aveva sostituito Martelli). Una decisione,
quest'ultima, che come disse lo stesso ex Guardasigilli (e i giudici in merito
non hanno dubbi) fu decisa "in piena autonomia" per alleggerire la
pressione per sollecitare un atteggiamento "meno esageratamente
ostile" di Cosa nostra.
Ma come si arrivò a
quella conclusione?
La storia parte da
lontano, proprio dall'avvicendamento al vertice del Dap tra Nicolò Amato e
Adalberto Capriotti e dalla nomina di Francesco Di Maggio come vice. Una
vicenda complessa che viene ricostruita in ogni suo segmento fino a giungere
alla conclusione che quella sostituzione "fu voluta - e, di fatto, imposta
al Ministro Conso ed al Presidente del Consiglio Ciampi - dall'allora
Presidente della Repubblica Scalfaro".
Quando fu sentito
dai pm, il Capo dello Stato aveva dichiarato di non saper nulla né della
trattativa né rispetto all’avvicendamento di Amato ha dichiarato ("Non ho
alcun ricordo di Amato. Nessuno mi ha mai messo al corrente su presunte
trattative o mancata proroga del 41 bis’"). Tuttavia nel corso del dibattimento
è emerso in particolare un documento che, scrive la Corte, "smentisce
inequivocabilmente ed incontestabilmente la negazione del Presidente
Scalfaro": l'annotazione del 6 giugno 1993, rinvenuta sull'agenda
dell'allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi. In questo appunto è
scritto: "rappresenta di preoccupazioni per il seguito della successione
di N. Amato alla Dir. Carceri; Conso avrebbe nominato anche un vice, troppo
duro (Giuseppe Falcone, ndr). Suggerisce che gli venga affiancato Giudice Di
Maggio: fa capire che è stato interessato da Parisi. Chiamo quest'ultimo, che
conferma quanto sopra. Chiamo allora Conso che, al contrario, mi riferisce che
tutto procede nel miglior modo; gli suggerisco di mandare messaggio che
politica carceraria non cambia. E' d'accordo. Domani verrà da me. Riferisco a
Scalfaro (il tutto fra 22 e 22,30)".
E' la
"conferma che il presidente Scalfaro, contrariamente a quanto aveva
dichiarato al pm nel 2010, ebbe un ruolo attivo nella fase di sostituzione del
direttore del Dap". Una considerazione pesante, tenuto conto del ruolo di
Scalfaro.
I giudici scrivono
che “ove si volesse escludere la consapevole reticenza del teste, può trovare
una qualche giustificazione soltanto il lungo tempo trascorso o di patologie
dovute all’età avanzata". Ma aggiungono anche: "In ogni caso, quali
che siano le ragioni che hanno indotto Scalfaro a negare di avere conoscenze in
ordine all'avvicendamento di Amato, non v'è dubbio che alla stregua delle
chiare testimonianze sopra ricordate (Fabbri, Amato e Gifuni, riscontrate,
peraltro, ampiamente, quanto meno sul contesto, da quelle dei numerosi
magistrati e funzionari del D.A.P. pure esaminati come testi nel corso del
dibattimento) deve, con certezza, ricondursi alla volontà del Presidente Scalfaro
la sostituzione dell'allora Direttore del D.A.P. Amato".
Le reazioni contro
il 41 bis
Nelle motivazioni
viene ricostruito il momento storico in cui maturò la decisione con il regime
41 bis al tempo al centro del dibattito "sia all'interno del D.A.P. sia
all'esterno tra le altre Istituzioni, i politici e il mondo dei media, era la
problematica dei cosiddetto regime del 41 bis, che aveva determinato forti
reazioni, talvolta anche violente, all'interno delle carceri e, per l'effetto,
un clima anche di intimidazione (v. lettera dei sedicenti familiari dei
detenuti di Pianosa che sarà più dettagliatamente esaminata più avanti), che
faceva temere disordini, ovvero, ancor peggio, la ripresa di una strategia
stragista da parte delle organizzazioni mafiose, tanto che, poi, come pure si
dirà meglio più avanti, molti nelle Istituzioni ebbero a collegare, senza
manifestare dubbi di sorta, le stragi di Firenze e, poi, di Roma e Milano
proprio all'intendimento delle dette organizzazioni mafiose, e tra queste,
soprattutto, quella denominata 'cosa nostra' di incidere sulla linea del rigore
carcerario sino ad allora portata avanti dalla Stato".
Il ruolo del Capo
della polizia Parisi
Leggendo le carte
emerge come nella vicenda della sostituzione ai vertici del Dap abbia avuto un
ruolo anche l'allora Capo della Polizia Parisi, che non solo avrebbe suggerito
la nomina di Di Maggio come vice di Capriotti ma avrebbe anche
"catechizzato" l'ex magistrato "sulla necessità di attenuare in
quel momento storico la durezza del regime carcerario". "Una cosa che
- scrivono i giudici - in concreto è effettivamente avvenuta con l'apporto - o,
quanto meno, la non opposizione - del Dott. Di Maggio, che soltanto
tardivamente si sarebbe reso conto della scelleratezza di quella linea
fondamentalmente contraria alle sue idee".
Le dichiarazioni di
Loris D'Ambrosio
Per ricostruire la
vicenda la Corte analizza anche alcune delle intercettazioni tra Nicola
Mancino, nel processo imputato e assolto per falsa testimonianza, e il
Consigliere giuridico del Quirinale, Loris D'Ambrosio.
Le “sollecitazioni”
dell'ex ministro degli Interni a quest'ultimo, vengono definite dalla Corte
come “un’iniziativa certamente censurabile”, inammissibile e inopportuna. In
una di queste conversazioni D'Ambrosio si interrogava sulla nomina di Di
Maggio: "allora chi ha avuto la bella pensata di farlo Vice Capo del
Dipartimento? Oui è il busillis. diciamo così. lasciando perdere il... la
finalità. che io ancora non ci voglio andare a capire. ma... a chi è venuto in
mente!?" (...) queste secondo me sono... sono delle cose strane che sono
accadute in quel periodo. (...) ma io non credo che lui rosse tanto favorevole
all'alleggerimento. lo credo che lui fosse di un'altra idea, no? Non so se...?
Ci fossero due scuole di pensiero per intendersi; una era l'alleggerimento del
41? (...) l'altra era, contestualmente: il colloquio investigativo e consentire
più agevole accesso nelle carceri agli amici di Ciccio Di Maggio (...) non ha
saputo niente mai, perché questo era un discorso che riguardava; per la parte
41 bis, alleggerimento 41 bis, Mori, Poliz... Parisi, Scalfaro e compagnia: per
la parte invece di..di... di colloqui investigativi un pò, diciamo... euhm..
chiamiamoli così... ehm... non so come dire, un po' sconsiderati oppure almeno...
almeno, almeno un po' tacili, ecco, così. Eh. eh... da parte Di Maggio Mori e
compagnia.".
E la Corte evidenza
come nell'intercettazione "si evince come il Dott. Loris D'Ambrosio avesse
ben compreso la centralità della nomina al D.A.P. del Dott. Di Maggio
nell'interesse del Capo della Polizia Parisi e del Col. Mori ai quali era
particolarmente legato, ancorché il medesimo Dott. D'Ambrosio ritenesse più
plausibile, conoscendo il Dott. Di Maggio, che quell'interesse fosse diretto
più che ad ottenere un alleggerimento del 41 bis, piuttosto a consentire
l'accesso nelle carceri dei suoi (di Di Maggio) 'amici' per avere,
evidentemente senza vincoli, colloqui investigativi con i detenuti" ed
emerge come "riguardo alla nomina di Di Maggio, fosse a conoscenza di ben
più di ciò che avrebbe poi riferito al P.M. il 20 marzo 2012".
L'appunto del Dap,
e le note della Dia e di Manganelli
I giudici nelle
motivazioni passano in rassegna anche alcuni documenti fondamentali come
l'appunto che il "rinnovato" Dap di Capriotti e Di Maggio, datato 26
giugno 1993 e firmato dal primo, in cui si "delinea e sottopone al
Ministro un nuovo indirizzo di politica carceraria certamente meno
rigoroso". I giudici parlando di un "mutamento dell'ottica". Non
più "quella della tutela delle esigenze primarie di sicurezza necessarie
per interrompere i collegamenti tra i detenuti e l'organizzazione criminale di
appartenenza responsabile di efferati delitti e, nel contempo, della necessità
per le Istituzioni di dare una forte risposta che potesse far comprendere alle
organizzazioni mafiose l'improduttività dell'attacco sferrato contro lo Stato,
facendone derivare soltanto conseguenze negative che potessero dissuaderle
dalla prosecuzione dell'attacco medesimo" ma al contrario di una "'mano
tesa' delle Istituzioni, che, a fronte di quell'escalation di violenza senza
precedenti ... proponeva ora di ridurre, quanto meno nel numero dei soggetti
destinatari, il regime di rigore carcerario con il solo fine di lanciare
'segnali di distensione' e di 'non inasprire il clima'".
Capitoli sono
dedicati alla nota della Dia dell'agosto 1993, firmata da De Gennaro, in cui
per si parla anche di "trattativa", e quella dello Sco, firmata da
Manganelli, ma anche da alcuni appunti del Presidente del Senato Spadolini. Scrive
la Corte che da questi documenti, ed anche dalla deposizione dell'ex Capo dello
Stato Giorgio Napolitano, "deve pervenirsi alla conclusione che nelle
Istituzioni fossero ormai ben chiari, dopo le ulteriori bombe del 27-28 luglio
1993, sia la finalità di 'Cosa nostra' di (ri)attivare una 'trattativa' per
attenuare il rigore carcerario e, più in generale, ottenere benefici per i
propri associati detenuti, sia, nel contempo, la corrispondente necessità di
mantenere la linea della fermezza, intrapresa dopo la strage di Capaci e sino
ad allora non più abbandonata, e ciò ad iniziare dal regime del 41 bis perché
qualsiasi passo indietro nella sua applicazione sarebbe stato letto come un
segnale di cedimento dello Stato al ricatto di 'cosa nostra'". Tuttavia, anche
se "nulla lasciava presagire che un tale cedimento potesse esservi"
lo stesso si manifesterà in un secondo momento.
Il Guardasigilli
Conso condizionato
Nella stesura del
documento la Corte evidenzierà alcuni aspetti cruciali come la
"tardiva" richiesta di informazioni in vista della scadenza del
novembre 1993 di oltre trecento 41 bis, ed anche lo "spessore
criminale-mafioso" dei detenuti che beneficiarono della mancata proroga.
Tra questi vi erano "storici" capi-mafia come Antonino
("Nenè") Geraci e Giuseppe Farinella, rispettivamente a capo dei
"mandamenti" di Partinico e San Mauro Castelverde che estendevano la
propria "competenza" su gran parte del territorio della Provincia di
Palermo, nonché Giovanni Prestifilippo, importante esponente della "famiglia"
mafiosa di Ciaculli. Ma la Corte, ha voluto evidenziare come
"indipendentemente dal 'nome' dei detenuti beneficiati" già la
decisione di non prorogare il regime del 41 bis costituiva in quel momento un
"fatto obiettivo idoneo" a far percepire ai vertici di Cosa nostra
"una inversione di tendenza" e "quel primo pur parziale segnale
di cedimento consentiva di far sperare loro (agli altri detenuti al 41 bis,
ndr) che la minaccia e ancor più l'attuazione di ulteriori stragi avrebbe
potuto condurre alla già richiesta definitiva abolizione del medesimo regime
del 41 bis per tutti i detenuti".
Secondo la Corte,
dunque, quella decisione di Conso lanciava un messaggio. I giudici ricordano le
parole di Conso che con quell'operato coltivava "una speranziella sottesa,
senza proclamarla" e cioè la speranza di vedere se dall'attenuazione del
rigore carcerario fosse potuta derivare la cessazione delle stragi.
Seppure la Corte
ritiene che non vi sia "ragione di dubitare" delle parole di Conso il
quale ha sottolineato più "l'autonomia della sua decisione, di cui si è
assunto la piena responsabilità, e l'assenza di qualsiasi collegamento della
stessa con "trattative" e contatti di qualsiasi tipo con la mafia
(compresi quelli intrapresi da Mori e De Donno con Vito Ciancimino) di cui egli
non venne mai a conoscenza" i giudici mettono in evidenza come la
spiegazione data sui motivi che lo portarono ad intraprendere quell'iniziativa
non siano convincenti.
In un primo
momento, infatti, Conso aveva dichiarato che in quel periodo la mafia
"taceva" ma questa è una spiegazione che "non trova alcun
riscontro nella realtà" anche perché ad ottobre 1993 erano appena
trascorsi due mesi dalle ultime stragi. "Non si comprende, dunque, - si
legge nella sentenza - come tale breve lasso di tempo potesse essere
interpretato, da chiunque, come una resipiscenza da parte della mafia e,
quindi, posto dal Ministro ad origine della sua autonoma decisione di mutare
l'indirizzo rigoroso ancora appena attuato nel precedente mese di luglio".
"E' evidente -
aggiungono i giudici - che qualcuno deve avere portato alla cognizione del
Ministro ulteriori elementi di conoscenza che egli, poi, ha valutato, facendone
derivare quella sua autonoma decisione finale. Tali elementi, in realtà, sono
stati indicati dallo stesso Conso e sono costituiti dalle notizie che egli ebbe
riguardo ad una differenziazione di posizioni all'interno di 'cosa nostra' tra,
da un lato, il sanguinario Riina e, dall'altro, Provenzano, invece, più
interessato agli affari e, quindi, 'meno esageratamente ostile' (così come
disse lo stesso Conso, ndr) allo Stato”.
Suggerimento Di
Maggio-Mori
Secondo i giudici i
soggetti che lo informarono di quell'evenienza (la spaccatura Riina-Provenzano,
ndr), fino a quel momento mai emersa neanche nelle informative degli organi
inquirenti, "deve individuarsi nei vertici del D.A.P. Capriotti e Di
Maggio con i quali egli si incontrava regolarmente". Di Maggio, a sua
volta, avrebbe appreso queste informazioni "grazie alle sue frequentazioni
con l Carabinieri - e con il Col. Mori". Del resto "soltanto i
Carabinieri del R.O.S. e, specificamente, il Col. Mori disponevano, a loro
volta, di quelle notizie in forza delle quali il Ministro Conso ha dichiarato
di essere addivenuto all'autonoma decisione di non prorogare i decreti del 41
bis. I Carabinieri del R.O.S., invero, riguardo a Provenzano, disponevano sia
delle informazioni, mai comunicate alle altre Forze dell'Ordine, ricavate da
Vito Ciancimino, sia, da ultimo, delle propalazioni di Salvatore Cancemi, che
si era costituito nel luglio del 1993 proprio ai Carabinieri e veniva
"gestito" dal R.O.S. e che aveva, peraltro, per la prima volta tolto
ogni dubbio sulla esistenza in vita dello stesso Provenzano dopo che i
familiari di quest'ultimo avevano fatto rientro a Corleone".
Altro elemento è
offerto persino dalle agende dello stesso Mori in cui alla pagina del giorno 27
luglio 1993, compare l'annotazione "Dal dr. Di Maggio (problema detenuti
mafiosi)". Ed è noto che il Ros non aveva alcuna competenza sulla gestione
dell'ordine pubblico nelle carceri, né tanto meno con riferimento specifico ai
"detenuti mafiosi". Dunque per la Corte "non è dato comprendere,
allora, quale fosse la ragione di quell'incontro".
Secondo la Corte,
dunque, dietro quella mancata proroga dei 41 bis vi sarebbe anche Mori,
attraverso la mediazione forse inconsapevole (giacché non è provata la sua
"consapevolezza della trattativa") del vice-capo dell’amministrazione
penitenziaria Francesco Di Maggio.
La minaccia di
"ulteriori gravi conseguenze" (nuove stragi dopo luglio, ndr) dunque,
"condizionò la decisione del ministro, che si determinò a lanciare un
segnale percepibile da Cosa nostra, nella dichiarata "speranziella"
(espressione di Conso, ndr) che servisse a mutare la frontale contrapposizione
dell’organizzazione mafiosa". E' così che si spiega perché si è giunti
alla condanna dei carabinieri per il reato di "attentato a corpo politico dello Stato",
fino al 1993.
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