Nella sentenza sulla trattativa l’ulteriore conferma della
ricostruzione dei Pm
Lorenzo Baldo,
Antimafia 2000
23 luglio 2018
E’ inequivocabile
il titolo del capitolo 35: “L'attendibilità intrinseca delle dichiarazioni di
Michele Riccio”. Dopo interi decenni di attacchi scomposti nei confronti
dell’ex ufficiale dei Carabinieri che ha combattuto le Br al fianco del
generale Carlo Alberto dalla Chiesa, arriva un’ulteriore conferma dell’onestà
delle sue dichiarazioni. Che – per la loro imponenza – avevano già portato
scompiglio all’interno dell’Arma dei Carabinieri e in determinati Palazzi della
Repubblica. La mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso (Pa) nel 1995? Riccio
aveva raccontato di una “non volontà” da parte del Ros a catturare il
superlatitante e soprattutto di una “sconcertante inefficienza” da parte di chi
stava coordinando l'operazione e cioè Mario Mori. Per comprendere l’importanza storica
delle dichiarazioni di Michele Riccio basta ripartire dal significato
dell’omicidio del Maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli, avvenuto il 4
aprile 1992. “Non può essere dubbio - si legge nel documento - che l'uccisione
del M.llo Guazzelli, possa avere accresciuto nello stesso Gen. Subranni la
sensibilità verso i temi della sicurezza di persone a lui in qualche modo e a
vario titolo vicine e possa, quindi, averlo indotto ad assumere, sollecitare o
avallare quell'iniziativa dei suoi subordinati Mori e De Donno finalizzata ad
instaurare una interlocuzione con i vertici mafiosi”. Per i Giudici si tratta
di “una conferma” che “seppure di carattere logico-deduttivo, si fonda su dati
di fatto accertati e su una valutazione complessiva degli stessi”. Una
“conferma” che giunge “anche da una annotazione rinvenuta sulle agende del Col.
Riccio a proposito di una confidenza che il collega Sinico (Umberto, ndr) ebbe
a fargli”.
Quelle confidenze
di Luigi Ilardo che il Ros non voleva
“Sin dai primi
approcci - scrivono i Giudici - e sino al 2 maggio 1996, lo scopo perseguito
dal Riccio e condiviso da Ilardo fu, prima di dare corso in una fase successiva
alla collaborazione con la Giustizia, quello di pervenire alla cattura di
latitanti dell'associazione mafiosa ‘Cosa nostra’, tanto che, in effetti,
vennero in sequenza individuati e arrestati, sulla scorta delle indicazioni del
medesimo Ilardo, numerosi latitanti di primo piano”. Poi però viene
sottolineata una gravissima anomalia da parte del Ros: “è del tutto evidente
che le informazioni fornite dal confidente che consentirono di pervenire a quei
risultati giammai furono trasfuse in informative di reato (l'unica
‘informativa’ fu redatta in data 11 marzo I996 ad uso esclusivamente interno
del R.O.S.) e, quindi utilizzate nell'ambito di un qualsiasi procedimento
penale, prima del rapporto c.d. ‘Grande Oriente’ del 30 luglio 1996, sul punto
della ricerca dei latitanti pressoché meramente riepilogativo”. “Neppure le
informazioni fornite dall'Ilardo riguardo all'incontro di Mezzojuso – si legge
nella sentenza – cui avrebbe partecipato Provenzano, furono in alcun modo
utilizzate dal R.O.S al quale le informazioni medesime erano pervenute tramite
il Col. Riccio, in quel frangente e per molto tempo ancora, per indagini a
carico dello stesso Ilardo ovvero dei soggetti da questi indicati in quel
contesto non ancor procedimentale”. Ed erano state proprio le dichiarazioni di
Luigi Ilardo sui mandanti esterni delle stragi del '92 e del '93 a terrorizzare
i vertici dell’Arma (e non solo). Con dovizia di particolari Michele Riccio
aveva spiegato che Ilardo era stato alquanto esplicito quando aveva dichiarato
a Mario Mori: “Molti attentati che sono stati addebitati esclusivamente a Cosa
Nostra, sono stati commissionati dallo Stato e voi lo sapete”. Il col. Riccio
aveva ribadito quindi l'indicazione avuta dallo stesso Ilardo su Marcello
Dell'Utri quale persona di riferimento di Cosa Nostra nel periodo in cui era
stato deciso di appoggiare la nascente Forza Italia. Dietro le quinte era
rimasto il ruolo ibrido della Massoneria "deviata" e di tutte quelle
entità esterne a Cosa Nostra che il confidente aveva avuto modo di conoscere.
Poi però Ilardo era stato assassinato dopo che una “talpa” istituzionale aveva
fatto trapelare la sua decisione di diventare collaboratore di giustizia. La
sentenza del 19 luglio scorso pone quindi un punto fermo sul granitico valore
delle dichiarazioni di Michele Riccio. Dichiarazioni così esplosive da
contribuire a distruggergli la carriera, segnando profondamente la sua vita
privata. In un altro Paese Riccio avrebbe ricevuto encomi solenni per il suo
coraggio e la sua abnegazione a favore della verità e della giustizia. In un
altro Paese, appunto.
L’ombra di Calogero
Mannino
E’ un’immagine
ibrida quella dell’ex ministro democristiano che traspare dalle pagine della
sentenza. Poco importa la sua assoluzione al processo in abbreviato sulla
trattativa Stato-mafia del 4 novembre 2015. E’ un percorso fatto principalmente
di logica, buon senso e riscontri oggettivi quello intrapreso dalla Corte
d'Assise. Esattamente ciò che era mancato nella sentenza del Gup Petruzzella,
che gli stessi pm avevano definito “percorsa da un singolare furore
demolitorio”.
“Tornando
temporalmente alla prima metà dell'anno 1992 - scrivono i Giudici - possono
ritenersi effettivamente provati tanto il timore (se non il terrore) di
Calogero Mannino, subito dopo l'uccisione di Salvo Lima, di subire anch'egli la
punizione o la vendetta di ‘Cosa nostra’ per non essere riuscito a raggiungere il
medesimo risultato preteso nei confronti di Salvo Lima o quanto meno per avere
voltato le spalle a ‘Cosa nostra’ nel momento di maggiore difficoltà di questa
dopo avere per molti anni instaurato con alcuni suoi esponenti rapporti che,
seppure, con apprezzamento ex post, in concreto non avevano avuto una effettiva
rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle
capacità operative dell'associazione mafiosa”. La Corte evidenzia i suoi
“comprovati rapporti con esponenti mafiosi quali risultano dalle sentenze
pronunziate nei suoi confronti”. Rapporti che, al di là della sua assoluzione
in abbreviato “apparivano in ogni caso ai mafiosi di buona ‘convivenza’”. A
dimostrazione di ciò vengono citate diverse “prove dichiarative”. Tra i collaboratori
di giustizia vengono chiamati in causa: Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè,
Francesco Onorato. E’ la volta poi di Riccardo Guazzelli e di Giuseppe
Tavormina. “In tale contesto di acquisizioni probatorie del tutto univoche - si
legge nel documento - sorprende che la difesa degli imputati Subranni e Mori
abbia contestato addirittura la stessa sussistenza di una preoccupazione
dell'On. Mannino per la propria vita nei mesi che seguirono l'uccisione
dell'On. Lima”. A conferma della ricostruzione della figura ambigua di Mannino
vengono ricordate di seguito le pregnanti dichiarazioni dell’ex vicedirettore
dell’Espresso Antonio Padellaro e della giornalista del Fatto Quotidiano Sandra
Amurri.
La consapevolezza
di Mannino
“Tutte le fonti di
prova esaminate, seppure di eterogenea natura (dichiarazioni di collaboranti di
Giustizia, dichiarazioni testimoniali e risultanze documentali), convergono
univocamente sulla logica conclusione che l'On. Mannino, ben consapevole della
vendetta che ‘Cosa nostra’ intendeva attuare anche nei suoi confronti per non
essere egli riuscito a garantire l'esito del maxi processo auspicato dai
mafiosi, si sia rivolto, non già a coloro che avrebbero potuto rafforzare le
misure già adottate per la sua sicurezza, bensì ad alcuni Ufficiali dell'Arma
‘amici’ e, innanzitutto, tra questi, al Gen. Subranni, al quale lo legava,
essendo questi conterraneo, un rapporto di risalente conoscenza”. Per i Giudici
vi è un ulteriore dato oggettivo: “Il Gen. Subranni, allora a capo del R.O.S.,
non aveva alcuna competenza per adottare concrete e specifiche misure dirette a
preservare l' On. Mannino da eventuali attentati ed, infatti, non risulta che
si sia adoperato, direttamente e quale Comandante del R.O.S. ovvero
intervenendo su coloro che avevano quelle competenze, per migliorare o
rafforzare le misure di protezione per I' On. Mannino medesimo. Costituisce,
allora, logica ed inevitabile conclusione che l'intendimento dell'On. Mannino
allorché ebbe a rivolgersi al Gen. Subranni non fosse quello di ottenere un
miglioramento o rafforzamento delle misure di protezione (che, d'altra parte,
come detto, nel suo pensiero, non lo
avrebbero comunque ‘salvato’), ma quello diverso di attivare un canale che, per via info-investigativa, potesse, sì,
acquisire più dettagliate notizie sugli intendimenti e sui movimenti di ‘Cosa
nostra’, ma, inevitabilmente, perché altrimenti non avrebbe addirittura del
tutto rinunziato alle misure di protezione assicurategli dalla Polizia di
Stato, anche operare affinché il corso degli eventi per lui sfavorevole potesse
essere in qualche modo mutato”.
Muro contro muro
“Ora - sottolineano
i Giudici -, non è dato sapere come sia stata recepita ed attuata da Subranni
quella più o meno esplicita sollecitazione del Mannino”, ma “è un dato di fatto
incontestato che, dopo la strage di Capaci, tra la fine di maggio e l'inizio di
giugno 1992, un ufficiale del R.O.S., l'odierno imputato De Donno, autorizzato
- rectius, sollecitato dai suoi superiori Subranni e Mori - contatta Vito
Ciancimino ed inizia a porre le basi di quel discorso che bene può racchiudersi
in quella frase che, poi, ad un certo punto, sarebbe stata rivolta dal Col.
Mori a Vito Ciancimino: ‘Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua?
Ormai c'è muro, contro muro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è
lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. Il riferimento esplicito è
a quel passaggio riportato nella sentenza della Corte d'Assise di Firenze del 6
giugno 1998. “Si tratta, - evidenziano i Giudici - di un approccio del tutto
coerente con l'intendimento più o meno chiaramente esplicitato dal Mannino con
la sua condotta fattuale, laddove, non può essere dubbio che l'approccio col
Ciancimino nella sua qualità di possibile referente dei vertici mafiosi (perché
questa, dichiaratamente, era la ragione di quel contatto all'indomani della
strage di Capaci) costituiva un oggettivo invito all'apertura di un possibile
dialogo con i vertici medesimi e, quindi l'accantonamento della strategia
mafiosa nell'ambito della quale si collocava anche la possibile uccisione
dell'On. Mannino”. Per la Corte d'Assise di Palermo quindi “la valutazione
logica dei fatti” porta alla seguente conclusione: “anche le preoccupazioni
dell' On. Mannino non siano state estranee nella maturazione degli eventi poi
definiti come ‘trattativa Stato-mafia’”. Siamo di fronte ad “un quadro
probatorio già formato” in merito alla “esistenza dei fatti nei loro aspetti
essenziali”, con tanto di prove “dirette”, o “indirette”, così come di
“deduzioni di tipo logico”. “Può ragionevolmente ritenersi - scrivono i Giudici
- che anche tale omicidio (del M.llo Guazzelli, ndr) si pone come antecedente
logico-fattuale dell'iniziativa che di lì a poco Subranni, unitamente a Mori,
avrebbe deciso di intraprendere per tentare un contatto diretto con i vertici
dell'associazione mafiosa nelle persone dei suoi capi assoluti Salvatore Riina
e Bernardo Provenzano”. A futura memoria.
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