domenica 22 luglio 2018

MAFIE: Stato-mafia: la consapevolezza di Mannino e le prove di Riccio

Nella sentenza sulla trattativa l’ulteriore conferma della ricostruzione dei Pm
Lorenzo Baldo, Antimafia 2000
23 luglio 2018

E’ inequivocabile il titolo del capitolo 35: “L'attendibilità intrinseca delle dichiarazioni di Michele Riccio”. Dopo interi decenni di attacchi scomposti nei confronti dell’ex ufficiale dei Carabinieri che ha combattuto le Br al fianco del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, arriva un’ulteriore conferma dell’onestà delle sue dichiarazioni. Che – per la loro imponenza – avevano già portato scompiglio all’interno dell’Arma dei Carabinieri e in determinati Palazzi della Repubblica. La mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso (Pa) nel 1995? Riccio aveva raccontato di una “non volontà” da parte del Ros a catturare il superlatitante e soprattutto di una “sconcertante inefficienza” da parte di chi stava coordinando l'operazione e cioè Mario Mori. Per comprendere l’importanza storica delle dichiarazioni di Michele Riccio basta ripartire dal significato dell’omicidio del Maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli, avvenuto il 4 aprile 1992. “Non può essere dubbio - si legge nel documento - che l'uccisione del M.llo Guazzelli, possa avere accresciuto nello stesso Gen. Subranni la sensibilità verso i temi della sicurezza di persone a lui in qualche modo e a vario titolo vicine e possa, quindi, averlo indotto ad assumere, sollecitare o avallare quell'iniziativa dei suoi subordinati Mori e De Donno finalizzata ad instaurare una interlocuzione con i vertici mafiosi”. Per i Giudici si tratta di “una conferma” che “seppure di carattere logico-deduttivo, si fonda su dati di fatto accertati e su una valutazione complessiva degli stessi”. Una “conferma” che giunge “anche da una annotazione rinvenuta sulle agende del Col. Riccio a proposito di una confidenza che il collega Sinico (Umberto, ndr) ebbe a fargli”.
Quelle confidenze di Luigi Ilardo che il Ros non voleva
“Sin dai primi approcci - scrivono i Giudici - e sino al 2 maggio 1996, lo scopo perseguito dal Riccio e condiviso da Ilardo fu, prima di dare corso in una fase successiva alla collaborazione con la Giustizia, quello di pervenire alla cattura di latitanti dell'associazione mafiosa ‘Cosa nostra’, tanto che, in effetti, vennero in sequenza individuati e arrestati, sulla scorta delle indicazioni del medesimo Ilardo, numerosi latitanti di primo piano”. Poi però viene sottolineata una gravissima anomalia da parte del Ros: “è del tutto evidente che le informazioni fornite dal confidente che consentirono di pervenire a quei risultati giammai furono trasfuse in informative di reato (l'unica ‘informativa’ fu redatta in data 11 marzo I996 ad uso esclusivamente interno del R.O.S.) e, quindi utilizzate nell'ambito di un qualsiasi procedimento penale, prima del rapporto c.d. ‘Grande Oriente’ del 30 luglio 1996, sul punto della ricerca dei latitanti pressoché meramente riepilogativo”. “Neppure le informazioni fornite dall'Ilardo riguardo all'incontro di Mezzojuso – si legge nella sentenza – cui avrebbe partecipato Provenzano, furono in alcun modo utilizzate dal R.O.S al quale le informazioni medesime erano pervenute tramite il Col. Riccio, in quel frangente e per molto tempo ancora, per indagini a carico dello stesso Ilardo ovvero dei soggetti da questi indicati in quel contesto non ancor procedimentale”. Ed erano state proprio le dichiarazioni di Luigi Ilardo sui mandanti esterni delle stragi del '92 e del '93 a terrorizzare i vertici dell’Arma (e non solo). Con dovizia di particolari Michele Riccio aveva spiegato che Ilardo era stato alquanto esplicito quando aveva dichiarato a Mario Mori: “Molti attentati che sono stati addebitati esclusivamente a Cosa Nostra, sono stati commissionati dallo Stato e voi lo sapete”. Il col. Riccio aveva ribadito quindi l'indicazione avuta dallo stesso Ilardo su Marcello Dell'Utri quale persona di riferimento di Cosa Nostra nel periodo in cui era stato deciso di appoggiare la nascente Forza Italia. Dietro le quinte era rimasto il ruolo ibrido della Massoneria "deviata" e di tutte quelle entità esterne a Cosa Nostra che il confidente aveva avuto modo di conoscere. Poi però Ilardo era stato assassinato dopo che una “talpa” istituzionale aveva fatto trapelare la sua decisione di diventare collaboratore di giustizia. La sentenza del 19 luglio scorso pone quindi un punto fermo sul granitico valore delle dichiarazioni di Michele Riccio. Dichiarazioni così esplosive da contribuire a distruggergli la carriera, segnando profondamente la sua vita privata. In un altro Paese Riccio avrebbe ricevuto encomi solenni per il suo coraggio e la sua abnegazione a favore della verità e della giustizia. In un altro Paese, appunto.
L’ombra di Calogero Mannino
E’ un’immagine ibrida quella dell’ex ministro democristiano che traspare dalle pagine della sentenza. Poco importa la sua assoluzione al processo in abbreviato sulla trattativa Stato-mafia del 4 novembre 2015. E’ un percorso fatto principalmente di logica, buon senso e riscontri oggettivi quello intrapreso dalla Corte d'Assise. Esattamente ciò che era mancato nella sentenza del Gup Petruzzella, che gli stessi pm avevano definito “percorsa da un singolare furore demolitorio”.
“Tornando temporalmente alla prima metà dell'anno 1992 - scrivono i Giudici - possono ritenersi effettivamente provati tanto il timore (se non il terrore) di Calogero Mannino, subito dopo l'uccisione di Salvo Lima, di subire anch'egli la punizione o la vendetta di ‘Cosa nostra’ per non essere riuscito a raggiungere il medesimo risultato preteso nei confronti di Salvo Lima o quanto meno per avere voltato le spalle a ‘Cosa nostra’ nel momento di maggiore difficoltà di questa dopo avere per molti anni instaurato con alcuni suoi esponenti rapporti che, seppure, con apprezzamento ex post, in concreto non avevano avuto una effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell'associazione mafiosa”. La Corte evidenzia i suoi “comprovati rapporti con esponenti mafiosi quali risultano dalle sentenze pronunziate nei suoi confronti”. Rapporti che, al di là della sua assoluzione in abbreviato “apparivano in ogni caso ai mafiosi di buona ‘convivenza’”. A dimostrazione di ciò vengono citate diverse “prove dichiarative”. Tra i collaboratori di giustizia vengono chiamati in causa: Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè, Francesco Onorato. E’ la volta poi di Riccardo Guazzelli e di Giuseppe Tavormina. “In tale contesto di acquisizioni probatorie del tutto univoche - si legge nel documento - sorprende che la difesa degli imputati Subranni e Mori abbia contestato addirittura la stessa sussistenza di una preoccupazione dell'On. Mannino per la propria vita nei mesi che seguirono l'uccisione dell'On. Lima”. A conferma della ricostruzione della figura ambigua di Mannino vengono ricordate di seguito le pregnanti dichiarazioni dell’ex vicedirettore dell’Espresso Antonio Padellaro e della giornalista del Fatto Quotidiano Sandra Amurri.
La consapevolezza di Mannino
“Tutte le fonti di prova esaminate, seppure di eterogenea natura (dichiarazioni di collaboranti di Giustizia, dichiarazioni testimoniali e risultanze documentali), convergono univocamente sulla logica conclusione che l'On. Mannino, ben consapevole della vendetta che ‘Cosa nostra’ intendeva attuare anche nei suoi confronti per non essere egli riuscito a garantire l'esito del maxi processo auspicato dai mafiosi, si sia rivolto, non già a coloro che avrebbero potuto rafforzare le misure già adottate per la sua sicurezza, bensì ad alcuni Ufficiali dell'Arma ‘amici’ e, innanzitutto, tra questi, al Gen. Subranni, al quale lo legava, essendo questi conterraneo, un rapporto di risalente conoscenza”. Per i Giudici vi è un ulteriore dato oggettivo: “Il Gen. Subranni, allora a capo del R.O.S., non aveva alcuna competenza per adottare concrete e specifiche misure dirette a preservare l' On. Mannino da eventuali attentati ed, infatti, non risulta che si sia adoperato, direttamente e quale Comandante del R.O.S. ovvero intervenendo su coloro che avevano quelle competenze, per migliorare o rafforzare le misure di protezione per I' On. Mannino medesimo. Costituisce, allora, logica ed inevitabile conclusione che l'intendimento dell'On. Mannino allorché ebbe a rivolgersi al Gen. Subranni non fosse quello di ottenere un miglioramento o rafforzamento delle misure di protezione (che, d'altra parte, come detto, nel  suo pensiero, non lo avrebbero comunque ‘salvato’), ma quello diverso di attivare un canale che,  per via info-investigativa, potesse, sì, acquisire più dettagliate notizie sugli intendimenti e sui movimenti di ‘Cosa nostra’, ma, inevitabilmente, perché altrimenti non avrebbe addirittura del tutto rinunziato alle misure di protezione assicurategli dalla Polizia di Stato, anche operare affinché il corso degli eventi per lui sfavorevole potesse essere in qualche modo mutato”.
Muro contro muro
“Ora - sottolineano i Giudici -, non è dato sapere come sia stata recepita ed attuata da Subranni quella più o meno esplicita sollecitazione del Mannino”, ma “è un dato di fatto incontestato che, dopo la strage di Capaci, tra la fine di maggio e l'inizio di giugno 1992, un ufficiale del R.O.S., l'odierno imputato De Donno, autorizzato - rectius, sollecitato dai suoi superiori Subranni e Mori - contatta Vito Ciancimino ed inizia a porre le basi di quel discorso che bene può racchiudersi in quella frase che, poi, ad un certo punto, sarebbe stata rivolta dal Col. Mori a Vito Ciancimino: ‘Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua? Ormai c'è muro, contro muro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. Il riferimento esplicito è a quel passaggio riportato nella sentenza della Corte d'Assise di Firenze del 6 giugno 1998. “Si tratta, - evidenziano i Giudici - di un approccio del tutto coerente con l'intendimento più o meno chiaramente esplicitato dal Mannino con la sua condotta fattuale, laddove, non può essere dubbio che l'approccio col Ciancimino nella sua qualità di possibile referente dei vertici mafiosi (perché questa, dichiaratamente, era la ragione di quel contatto all'indomani della strage di Capaci) costituiva un oggettivo invito all'apertura di un possibile dialogo con i vertici medesimi e, quindi l'accantonamento della strategia mafiosa nell'ambito della quale si collocava anche la possibile uccisione dell'On. Mannino”. Per la Corte d'Assise di Palermo quindi “la valutazione logica dei fatti” porta alla seguente conclusione: “anche le preoccupazioni dell' On. Mannino non siano state estranee nella maturazione degli eventi poi definiti come ‘trattativa Stato-mafia’”. Siamo di fronte ad “un quadro probatorio già formato” in merito alla “esistenza dei fatti nei loro aspetti essenziali”, con tanto di prove “dirette”, o “indirette”, così come di “deduzioni di tipo logico”. “Può ragionevolmente ritenersi - scrivono i Giudici - che anche tale omicidio (del M.llo Guazzelli, ndr) si pone come antecedente logico-fattuale dell'iniziativa che di lì a poco Subranni, unitamente a Mori, avrebbe deciso di intraprendere per tentare un contatto diretto con i vertici dell'associazione mafiosa nelle persone dei suoi capi assoluti Salvatore Riina e Bernardo Provenzano”. A futura memoria.

Nessun commento:

Posta un commento