La
delibera del ministro dell’Interno parla di differenti modalità di assistenza
per i richiedenti asilo e i titolari di protezione, oltre che della
razionalizzazione della spesa. L’obiettivo è essenzialmente quello di portare i
costi dei CAS da 35 a 25 euro al giorno per migrante (anche se alcune fonti ci
confermano come probabilmente si “chiuderà” a 28 euro), con il via libera
dell’ANAC di Cantone (che produrrà dei prezzi – standard per materiali e
servizi).
Adriano Biondi
25/07/2018
Ridurre i costi per l’assistenza
ai richiedenti asilo e cambiare il sistema messo faticosamente in piedi negli
ultimi anni dai governi Letta, Renzi e Gentiloni. L’obiettivo di Matteo Salvini
è noto e, come vi avevamo anticipato, da tempo il suo staff è al lavoro per
incardinare il percorso di riforma dell’accoglienza, con incontri con gli
operatori del settore e soprattutto con le altre controparti istituzionali. Ora
però c’è un primo passaggio formale importante. O meglio, ce ne sono due, che
chiariscono bene quale sia l’impostazione del progetto del vicepresidente del
Consiglio e ministro dell’Interno e quali potrebbero essere le conseguenze nel
breve e medio periodo.
Con una direttiva inviata ai
prefetti, Salvini comincia infatti a impostare la riorganizzazione dell’intero
sistema dell’accoglienza. E, parallelamente, firma un protocollo d’intesa con
l’ANAC di Raffaele Cantone per l’elaborazione “di un nuovo capitolato per la
fornitura di beni e servizi, comprensivo degli schemi di bandi tipo a cui
dovranno attenersi i prefetti nella predisposizione delle gare di appalto di
competenza”.
Complessivamente, il ministro
dell’Interno intende cambiare il modello dell’accoglienza, riducendone
l’impatto sui centri urbani e il costo per le casse dello Stato. Con l’aiuto
dell’ANAC, si intende abbassare la base d’asta per le gare d’appalto a circa 25
euro a migrante ospitato nei centri di accoglienza straordinari (per i centri
SPRAR occorre fare un discorso a parte). Una cifra che, come vi abbiamo
anticipato, potrebbe essere portata a 28 euro, per venire incontro alle
richieste degli operatori del settore, che hanno più volte spiegato come una
riduzione secca del contributo potrebbe avere ripercussioni sulla qualità stessa
dell’accoglienza nei CAS.
L'organismo guidato da Cantone
dovrebbe infatti determinare dei prezzi standard di riferimento per i vari
servizi (cibo, vestiti, assistenza) intorno ai quali calibrare i bandi, con
soglie cui cooperative e gestori dovranno adeguarsi. Il piano di Salvini è però
più ambizioso e complesso del semplice “taglio dei costi”. E potrebbe avere
effetti ben più gravi, anche per quanto concerne i rapporti con l’Europa.
Proviamo a capire di cosa si
tratta, a partire da quanto messo nero su bianco dal Viminale. Collegandosi a
una (ben più ampia, per la verità) raccomandazione espressa dalla Corte dei
Conti e ribadendo che l’intenzione del suo ministero è quella di accelerare
l’iter per la valutazione delle richieste di protezione internazionale (oltre
che di operare una stretta sull’accoglimento delle stesse, come spiegato dalla
circolare che vi mostrammo in anteprima), Salvini mira a “ridefinire i servizi di
prima accoglienza riservati ai richiedenti asilo”, tagliando alcune misure di
“prima integrazione”, al momento previste per tutti coloro che sono ospiti delle
strutture di accoglienza.
Si legge nella direttiva: Gli
interventi di accoglienza integrata volti al supporto di percorsi di inclusione
sociale, funzionali al conseguimento di una effettiva autonomia personale,
dovranno continuare ad essere prestati nelle sole strutture di secondo livello
a favore dei migranti beneficiari di una forma di protezione, mentre i servizi
di prima accoglienza vanno invece rivisitati anche in un’ottica di
razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica.
Cosa significa? Prima di tutto
che agli ospiti dei CAS, essenzialmente coloro che abbiano fatto richiesta di
asilo politico o di altra forma di protezione umanitaria, sarà garantito “oltre
all’alloggio e al vitto, la cura dell’igiene, l’assistenza generica alla
persona (mediazione linguistico-culturale, informazione normativa …), la tutela
sanitaria e un sussidio per le spese giornaliere (il pocket money, ndr)”,
mentre i percorsi di inserimento lavorativo, i corsi di lingua e le altre
attività “volte al supporto di percorsi di inclusione sociale, funzionali al
conseguimento di una effettiva autonomia personale” saranno riservate
esclusivamente ai titolari di una qualche forma di protezione umanitaria. In
pratica, il Viminale vuole ridurre al minimo lo sforzo di assistenza per coloro
i quali facciano domanda di protezione, sacrificando i primi tentativi di
integrazione a logiche di contenimento dei costi. La decisione risponde
all’idea di “accoglienza differenziata” e prevede anche la definizione di “più
bandi – tipo” che possano servire a “soddisfare le esigenze nei propri
territori”.
Il Viminale punta a una serie di strutture
di medie e piccole dimensioni che vadano a sostituire i grandi centri
“collettivi”, fino ad arrivare alle “singole unità abitative”, destinate ai
titolari di protezione, che dovrebbero usufruire di servizi “in rete” (servizi
amministrativi, mediazione linguistico-culturale, informazione normativa).
Anche questo è un aspetto
particolarmente interessante, perché dal punto di vista teorico rinunciare ai
grandi centri in favore dell’accoglienza diffusa potrebbe essere una soluzione.
Come faceva presente l’Associazione Carta di Roma, l’accoglienza diffusa è più
efficace perché “consiste innanzitutto nel non concentrare in un unico spazio
centinaia di persone ma nel suddividerle sul territorio italiano agevolandone
l’inclusione e l’integrazione”; inoltre i grandi numeri abbassano il livello
qualitativo dell’accoglienza, come dimostrato da decine di esempi negli ultimi
anni.
Dunque, tutto bene? No, affatto.
Perché conciliare accoglienza diffusa, piccoli numeri e taglio dei costi è
praticamente impossibile. Come ci spiega una fonte del mondo della
cooperazione, infatti, “i grandi numeri consentono di abbattere i costi, dal
cibo al riscaldamento, fino ad arrivare ai servizi formativi”, mentre “Salvini
vorrebbe risparmiare mettendo in rete alcuni servizi, come la mediazione e il
supporto normativo, ma non si rende conto che ci sono degli ostacoli
insuperabili, che possono essere legati alla conformazione dei territori, alle
difficoltà logistiche o alle specificità delle singole situazioni”.
Il problema è che l’accoglienza
diffusa necessiterebbe di investimenti più consistenti, ricalcando quanto fatto
negli anni intorno ai progetti SPRAR, vero modello di accoglienza integrata e
sostenibile. Insomma, i costi dovrebbero aumentare, non diminuire, se davvero
si intende superare il modello dei grandi centri.
Di cosa si tratta?
Ve ne avevamo parlato qui,
sottolineando una serie di “requisiti – base” per tali centri: Le strutture dei
progetti Sprar devono rispondere a requisiti più stringenti, anche in
considerazione del fatto che non vige la possibilità dell’affido emergenziale,
vera e propria scappatoia regolamentare alla base di sprechi e disfunzioni.
Sono gli Enti locali a dover
garantire che le strutture (appartamenti singoli, nei quali i rifugiati hanno
ampia autonomia gestionale, o centri collettivi con la presenza di operatori
nelle ore diurne e notturne) siano in possesso dei requisiti in materia di
urbanistica, edilizia, prevenzione incendi, igiene e sicurezza e rispettare le
norme igienico-sanitarie relative a qualità, conservazione e somministrazione
di cibi e ingredienti.
Altro particolare da non
sottovalutare è quello della collocazione dei centri di accoglienza nei centri
abitati e in zone ben servite dai trasporti pubblici: il senso è quello di “non
ostacolare la partecipazione alla vita sociale e l’accesso ai servizi del
territorio da parte dei beneficiari”.
Nei centri si presta particolare
attenzione al vitto e ai generi di prima necessità, che vengono forniti tenendo
conto anche delle particolari esigenze legate a tradizioni culturali e
religiose. Ovviamente le modalità di erogazione sono legate alle diverse
conformazioni dei centri: ad esempio nel caso di appartamenti si opta per la
distribuzione diretta di generi alimentari, nel caso di mense esterne alla
struttura di accoglienza vengono erogati buoni pasto, nel caso di mense interne
si forniscono diverse tipologie di menu e in specifiche situazioni si scegli di
versare direttamente denaro ai beneficiari. Anche per la fornitura di
vestiario, abbigliamento e prodotti per l’igiene si opta o per l’erogazione
diretta da parte del progetto di accoglienza, o per un contributo in denaro o
con un buono spesa.
A chi fa presente che la buona
accoglienza è incompatibile con il taglio dei costi, Salvini risponde citando
l'esperienza francese, con i migranti che "costano" circa 25 euro a
testa allo Stato centrale. La realtà è però ben diversa: se è vero che la cifra
spesa per i centri di accoglienza è più bassa, allo stesso tempo bisogna
considerare che i servizi destinati ai migranti sono già a carico del welfare,
che supporta anche economicamente gli ospiti dei centri.
Nessun commento:
Posta un commento