Andrea Colombo – Il manifesto
26 settembre ’18
Doveva essere un deficit al 2,4% e un deficit al
2,4% sarà. Tria si è arreso. Dopo un braccio di ferro proseguito per tutto il
giorno il ministro dell’Economia ha accettato le condizioni dell’asse
Salvini-Di Maio, che non era disposto ad accettare nulla di meno. I due leader
esultano. «Abbiamo portato a casa la manovra del popolo che per la prima volta
cancella la povertà grazie al reddito di cittadinanza, per il quale ci sono 10
miliardi», festeggia Di Maio, aggiungendo che il Def prevede anche gli
interventi sulle pensioni minime, la revisione della Fornero, il risarcimento
per i truffati dalle banche. Salvini spara a sua volta i mortaretti: «Sono
pienamente soddisfatto per gli obiettivi raggiunti. Tasse al 15% per un milione
di lavoratori, superamento della Fornero, chiusura delle cartelle Equitalia».
E’ STATO IL GIORNO PIÙ LUNGO, stavolta non solo
per modo di dire. Il braccio di ferro sulla nota aggiuntiva al Def si è
prolungato per ore, durissimo. Ma il fronte della maggioranza si è presentato
tanto compatto quanto agguerrito. La Lega si è schierata senza più esitazioni a
fianco degli alleati a 5 stelle e i due partiti non si accontentavano neppure
di un asticella al 2,1%, ultimo tentativo di Tria di evitare la resa
incondizionata. Volevano una manovra alla Macron e per ottenerla erano pronti a
tutto. Eloquente la battuta che un leghista si lascia sfuggire un attimo prima
del vertice, nel tardo pomeriggio: «Come finisce? Che o Tria cede oppure cede».
A ostacolare ogni soluzione c’era quella che in
realtà si configurava da subito come la prima linea dello scontro: la Fornero.
I fondi per M5S si potevano anche trovare, tutti i 10 miliardi chiesti da Di
Maio, ma solo stanziando per la revisione della Fornero una cifra largamente
insufficiente per consentire a Salvini di mantenere la sua promessa: quota 100
con 62 anni di età e 38 di contributi. Ufficialmente era solo questione di
cifre, in realtà è molto difficile non pensare che pesasse anche quel veto
della Bce che sia Draghi che i bollettini mensili della banca hanno più volte,
e ieri di nuovo, confermato. La speranza di Tria e del Quirinale era che
Salvini si accontentasse della rendita di popolarità assicurata dalla campagna
sull’immigrazione e si rassegnasse a un intervento solo di facciata sulla
Fornero. Ma il leader leghista si era spinto troppo oltre per tornare indietro
e Di Maio lo ha spalleggiato. E’ stato proprio lui a respingere quell’ultima
mediazione proposta da Tria: «La Fornero è nel contratto, impossibile
cassarla».
La giornata di passione di Tria si era aperta
sgombrando il campo da una voce che aveva tenuto banco per tutta la notte
precedente: quella di una sua dipartita dal ministero di via XX settembre, o
per sua scelta o per «licenziamento». Di Maio era stato il primo a smentire,
poi lo stesso ministro aveva escluso le proprie dimissioni. E’ proprio
l’impossibilità di risolvere il conflitto tagliando il nodo di Gordio a spiegare
la situazione di stallo che si è protratta tutto il giorno. L’uscita del
governo del ministro dell’Economia avrebbe comportato una tempesta di portata
inaudita ai danni dell’Italia. Significa che nessuno può permettersi di
metterlo alla porta, ma significa anche che lui stesso non può usare l’arma
della minaccia di dimissioni. Sarebbe un rimedio peggiore di ogni male, come
confermano le simulazioni nelle quali si sono prodotti ieri diversi istituti:
il deficit al 2,4% aumenterà probabilmente lo spread di una quarantina di
punti, riportandolo vicino alla soglia minacciosa dei 300, ma le dimissioni di
Tria avrebbe avuto effetti ben più catastrofici. Il ministro non ci ha pensato
per niente ma se anche lo avesse fatto a sconsigliarlo con estrema decisione sarebbe
stato il Colle.
DUNQUE I CONTENDENTI sono stati costretti a
trattare, ma con Tria privato della sola arma che avesse a disposizione. Negare
la sua firma avrebbe reso infatti inevitabili le dimissioni con gli effetti
devastanti che ciò avrebbe provocato. L’unica possibilità di evitare la rotta
era dividere il fronte della maggioranza: un’impresa quasi disperata. Mercoledì
sera, quando Di Maio sembrava con le spalle al muro, Salvini aveva scelto di
schierarsi al suo fianco nonostante il parere di Giorgetti, il «responsabile»
della Lega, pronto ad accettare una mediazione con il deficit al 2%. Era
inevitabile che, quando la strategia del Mef è cambiata in extremis con
l’offerta del reddito di cittadinanza a Di Maio in cambio della cancellazione
di fatto della revisione della Fornero, il pentastellato ricambiasse il favore,
lasciando Tria senza via di scampo.
La partita però è appena cominciata. Nei prossimi
giorni sarà chiara la temuta reazione dei mercati. Poi dovrà prendere posizione
la Ue e la procedura d’infrazione è già quasi certa.
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