Jolanda Bufalini– Striscia rossa
25 settembre ’18
È
raro che il New York Times dedichi un reportage all’Italia, a meno che non si
parli di “smarter living”, ricette del giorno e meravigliosi borghi e angoli di
mare. Ed è proprio a uno dei brand di maggior successo globale, quello del made
in Italy, che due giornaliste del mondo della moda, Elizabeth Paton e Mirella
Lazazzera, dedicano il reportage pubblicato il 21 settembre. Il contenuto,
però, non ha nulla di frivolo sin dal titolo: “Dentro l’Italia dell’economia in
nero”. “Migliaia di lavoratrici sottopagate creano i capi del lusso”. La scena
che descrivono è di quelle che immagini in Bangladesh, in India, Vietnam e
Cina: “In un appartamento al secondo piano a Santeremo in Colle, in provincia
di Bari, una donna di mezz’età è china sul suo tavolo da cucina, imbastisce con
attenzione un sofisticato cappotto di lana, di quelli che, quando arriveranno
nelle vetrine per la collezione autunno inverno, saranno messi in vendita per
800-2000 euro. La donna, che non vuole essere citata per timore di perdere il
lavoro, invece riceve “dalla fabbrica che la impiega un euro per ogni metro di
stoffa”. “Mi ci vuole circa un’ora per cucire un metro di stoffa, dalle 4 alle
5 ore per un cappotto intero, cerco di completarne 2 al giorno”, racconta la
donna che non ha né contratto né assicurazione ed è pagata cash al mese. “Il
suo è lavoro esternalizzato da una fabbrica locale che riceve commesse dai
marchi più celebri, da Max Mara a Louis Vuitton”. Il suo guadagno più grande,
ricorda, “è stato di 24 euro per un solo cappotto”. “La crescente pressione della
globalizzazione e della competizione a tutti i livelli – riflettono le autrici
– mette sotto minaccia la promessa implicita nel mercato del lusso, ovvero che
una parte del valore di questo tipo di beni sta nell’essere prodotte nelle
migliori condizioni, da lavoratori specializzati e ben pagati”. In Italia,
aggiungono, “non c’è salario minimo ma una paga di 5-7 euro l’ora è considerata
appropriata e, in casi rari, per lavori altamente specializzati, si arriva a
8-10 euro”. Ma questi lavoratori casalinghi ricevono molto meno, che lavorino
nella pelle, nelle guarnizioni o ad altri compiti artigianali.
A
Ginosa, un’altra località pugliese, “Maria Colamita, 53 anni, racconta che fino
a 10 anni fa, quando aveva i bambini piccoli, cuciva sugli abiti da sposa
perle, paillettes e ricami per una paga fra 1 euro e 50 centesimi e i 2 euro”. Per ogni abito lavorava fra le
10 e le 50 ore. “Adesso che i figli sono cresciuti fa le pulizie per 7 euro
l’ora”. Sono poche le donne che parlano, temendo di perdere un lavoro con una
paga molto magra e completamente privo di protezione ma che dà loro
l’opportunità di occuparsi della famiglia. Una delle poche che racconta, sia
pure nell’anonimato, lavora in fabbrica a 5 euro/ora ma integra con altre tre
ore da casa, 50 euro a pezzo per capi di alta qualità.
L’inchiesta
del New York Times ha raccolto “prove relative a circa 60 donne nella sola
Puglia che lavorano nella manifattura degli abiti senza contratto”, in un
settore che nel 2017 ha prodotto il 5 per cento del PIL e si stima impieghi
mezzo milione di persone direttamente o nell’indotto. Tania Toffanin, autrice di “Fabbriche invisibili”,
stima “fra i 2000 e i 4000 lavoratori nella produzione degli abiti”. “Più in
fondo si scende nella catena produttiva – dice Deborah Lucchetti di Abiti
puliti, il braccio italiano della Clean Clothes Campaign – più grandi sono gli
abusi”. La struttura frammentata globale del settore, aggiunge Lucchetti, “è la
ragione chiave che spiega il lavoro nero anche in un paese del primo mondo come
l’Italia”.“Le fabbriche pugliesi – concludono le autrici dell’articolo –
dichairano di aderire agli accordi sindacali e aggiungono che i marchi del
lusso fanno controlli sulle condizioni di lavoro e gli standard di qualità”.
LVMH (Louis Vuitton) non ha ritenuto di rilasciare commenti. Max Mara considera
“il comportamento etico nelle forniture un valore” e “si dichiara all’oscuro ma
annuncia un’indagine”. Il problema, sostiene Deborah Lucchetti, “sta nella
scelta di avere esternalizzato il grosso della produzione”.
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