Madawi al Rasheed, Middle East Eye– Internazionale
01 Ottobre 2018
Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman
ha sorpreso molti quando, il 24 ottobre 2017, ha concesso un’intervista al
Guardian per celebrare la futuristica città di Neom, un progetto del valore di
500 miliardi di dollari che sorgerà sul mar Rosso tra l’Arabia Saudita,
l’Egitto e la Giordania. Per garantire il successo del programma Vision 2030,
di cui Neom fa parte, ha annunciato anche importanti riforme economiche e sociali.
“Restituirò l’Arabia Saudita all’islam moderato”, ha promesso.
Salman ha fatto appello alla comunità
internazionale affinché contribuisca a rendere l’Arabia Saudita una società di
nuovo aperta, come se nella sua storia recente il regno lo sia mai stato. Al
principe sembrano sfuggire alcuni aspetti importanti sia dell’islam moderato
sia delle basi su cui si fonda una società aperta. Di fatto il regime saudita è
sempre stato, e continua a essere, un fermo oppositore di entrambe le cose.
Negli ultimi ottant’anni, il regime si è basato su
interpretazioni radicali dell’islam per addomesticare, controllare e
sottomettere una popolazione araba molto diversificata. Per la prima volta
nella storia una tradizione religiosa radicale, il wahabismo, è diventa religione
di stato, sostenuta dalla spada e dai petrodollari. Storicamente,
interpretazioni radicali dell’islam sopravvivevano solo nei deserti e nelle
montagne distanti e isolate del mondo musulmano, dove questi movimenti venivano
espulsi. Invece in Arabia Saudita il wahabismo ha resistito dalla metà del
seicento a oggi. La variegata popolazione saudita è stata sottomessa in nome di
un dio rappresentato come una divinità potente, adirata e spietata. Gli
interpreti della sua parola sono diventati notabili di stato, un’alta casta
sacerdotale con poteri di scomunicare intere comunità e singoli individui.
Il principe ha in mente una teologia monarchica
che criminalizzi la critica, il dissenso e perfino l’attivismo pacifico
Non è chiaro come il regime potrà attuare una vera
riforma religiosa, soprattutto se si tiene conto del fatto che molti attivisti,
religiosi, professionisti e perfino poeti, non tutti radicali o oppositori
della nuova visione di Salman, sono stati messi in carcere nell’ultima ondata
di arresti.
Per potersi affermare, una riforma religiosa deve
nascere da un dibattito interno ai circoli islamici ed essere del tutto libera
dal controllo dello stato. La teologia della liberazione non è mai nata nelle
corti di monarchi e principini dispotici. Ma il principe ha in mente
qualcos’altro: una teologia monarchica che criminalizzi la critica, il dissenso
e perfino l’attivismo pacifico.
L’islam ha una sua specificità, che consiste
soprattutto nella sua capacità di riformarsi da solo. Le sue molteplici scuole
di giurisprudenza, che danno forma all’interpretazione della sharia; i
ricchissimi testi che si offrono all’ijtihad, il processo di deduzione delle
leggi; e la tradizione del kalam, ossia il dibattito nei circoli di studiosi:
sotto il regime degli Al Saud tutto questo è scomparso. Il risultato finale è
l’imposizione di un’unica interpretazione dell’islam con lo scopo di preservare
la monarchia assoluta. Il principe sembra sostenere un islam politicamente
oppressivo coperto da una patina liberale che accetta la musica pop e il ballo.
Questo islam moderato prevede l’abolizione della
pena di morte, la messa al bando della poligamia, la possibilità di un
dibattito religioso sull’ereditarietà del potere, la natura del governo
islamico e l’illegittimità della monarchia nell’islam? Permette alla società
civile e ai sindacati di fiorire e affermarsi come versioni moderne delle
antiche gilde islamiche? Questo progetto di islam moderato significa vera
consultazione, un’assemblea nazionale eletta, un governo rappresentativo?
Assolutamente no. L’islam moderato del principe è un progetto ben preciso in
cui le voci dissidenti vengono messe a tacere, gli attivisti finiscono in
carcere e gli avversari sono ridotti al silenzio.
Ultimamente la nuova religione consente alle donne
di guidare, magari addirittura di guidare fino in prigione nel caso in cui
dovessero contestare le politiche economiche o il programma sociale del regime.
E dovrebbero festeggiare visto che potranno ballare per strada e stare insieme
agli uomini in pubblico. Questa riforma è ritenuta essenziale per la rinascita
economica e per un’economia basata sulla tecnologia che somiglia a Disneyland.
Il robot Sofia, l’ultima novità nel repertorio della promessa economia dei gadget,
è oggi cittadina saudita, un simbolo dei drastici cambiamenti che attendono i
rinati sauditi moderati. Sofia non è obbligata a indossare il velo come
dovevano fare fino a poco tempo fa le bambole di plastica e i manichini senza
testa nei negozi di moda. In futuro il regime potrebbe prendere in
considerazione l’ipotesi di trasformare i cittadini sauditi in robot che non
fanno domande, che appoggiano e apprezzano volentieri e senza opporre
resistenza non solo il cosiddetto islam moderato ma anche la nuova Disneyland
promessa.
Un’utopia promessa
Open society, la società aperta, è un’altra utopia
con cui il principe vorrebbe sostituire la vecchia utopia islamica fondata
sulle interpretazioni. Ma una società aperta dovrebbe essere una democrazia
compiuta, in cui diritti civili e politici sono salvaguardati. Finora invece il
regime ha dimostrato che l’ultima cosa che desidera è una società aperta.
L’Arabia Saudita è effettivamente aperta al
capitale internazionale che può salvarla dai pericoli della dipendenza da un
unico prodotto, il petrolio, soggetto a fluttuazioni di prezzo. È anche aperta
alle aziende internazionali desiderose di aprire bottega nel regno. I beni di
consumo inondano i mercati con vaghe promesse di insegnare alle donne l’arte
del trucco e di creare così nuove opportunità di lavoro. Tuttavia una società
aperta non è certo l’obiettivo del programma Vision 2030 o della riforma
dell’islam.
Se non darà voce al popolo, l’Arabia Saudita
resterà una società chiusa in cui lo stato controlla la religione, un vecchio
progetto che ha rovinato l’islam e lo ha trasformato in uno strumento
autoritario, rovinando la reputazione dell’islam e dei musulmani.
La comunità internazionale sta come un mendicante
davanti ai cancelli del palazzo, in attesa di altri annunci da cui poter trarre
benefici. Le aziende dovrebbero adottare un comportamento responsabile e
insistere su una vera apertura, invece di accontentarsi di quella falsa
promessa dal principe. Il loro ambiente di lavoro sarebbe di sicuro migliore se
nel regno fossero rispettati i diritti umani e le norme del buongoverno, o
addirittura forme rudimentali di democrazia. Invece, in condizioni di repressione
e opacità le aziende e i loro dipendenti saranno a rischio.
Nel breve periodo gli affari potranno anche
apparire rosei in una dittatura, ma alla lunga si tratta di un’utopia
insostenibile deturpata dalla repressione. Ricordate che nella terra in cui non
vige lo stato di diritto ma il volere del principe potreste essere sbattuti
fuori in qualsiasi momento.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
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