Gianluca Zapponini– Formiche
26 settembre ’18
Somme e sottrazioni. Che non tornano. E allora,
come sempre succede quando non si trova la via d’uscita, si sconfina
(pericolosamente) sul terreno della politica. Quanto successo ieri lo dimostra.
Una manovra da scrivere, dei vincoli da rispettare, un mercato che ci presta
400 miliardi all’anno (al netto della Bce) da tenersi stretto e una domanda che
non incontra l’offerta.
La domanda è quella di Luigi Di Maio, l’offerta
quella del ministro dell’Economia Giovanni Tria. L’uomo chiamato dal governo a
garantire la tenuta dei nostri conti dinnanzi all’Europa. Qualcosa però ieri
non ha funzionato. Di Maio chiede 8-10 miliardi per avviare quel reddito di
cittadinanza che è molto più di un’ossessione per il Movimento. Tria ne offre
1-2 al massimo, il resto deve essere equamente ripartito tra le esigenze della
Lega, l’Iva da congelare e una spruzzata di investimenti pubblici (Tria li
vorrebbe al 3% del Pil ma sarà difficile farlo capire a Di Maio, che già sul
Tap e sulla Tav ha delle remore).
Il resto sono 50 anni di patti europei
sottoscritti dall’Italia e senza una pistola alla tempia. Che raccontano più o
meno questa verità. Per soddisfare le richieste di Di Maio (e quelle degli
italiani, ha detto il vicepremier) servirebbe allentare il deficit/pil almeno
al 2,6-2,7%. Quel famoso “sfiorare” il 3% tanto caro anche alla Lega. I soldi
si troverebbero subito, una dozzina di miliardi servita su un piatto d’argento
e solo per il Movimento 5 Stelle. Poi però ci si potrebbe rimangiare la parola
molto presto.
Primo, l’Italia non cresce (1,2% nel 2019 secondo
Moody’s, ai limiti dell’anemia) dunque nessuna compensazione da parte del
denominatore: avanza solo il deficit, non il prodotto interno lordo. Secondo,
scatterebbe più o meno immediatamente la rappresaglia degli investitori, che
non gradirebbero la disinvolura di un Paese che non riesce a tenere a bada i
suoi conti permettendosi però il lusso di non crescere. Come ha spiegato ieri a
questa testata l’economista Leonardo Becchetti, lo spread finirebbe per
rimangiarsi tutto il guadagno (quest’anno già si pagheranno un miliardo di
interessi in più sui titoli pubblici piazzati per finanziarsi il debito).
Costerebbe cioè di più collocare il nostro debito.
Dunque, e qui si arriva a Tria, meglio la coperta
corta ovvero un deficit all’1,6%. Mercati tranquilli, Europa pure, e primi
cantieri avviati. Certo non si potrebbe fare quel tutto e subito che chiedono
gli azionisti del governo gialloverde, ma un segnale agli elettori si potrebbe
dare. E poi, puntando più sugli investimenti, come dice Tria, spostando cioè il
baricentro della manovra più sulla crescita, il prossimo anno si potrebbe
decidere una riduzione del defcit più graduale, fornendo maggiori spazi di
manovra.
Una cosa è certa. I mercati credono in Tria, sono
convinti che alla fine riuscirà a riportare il tutto nell’alveo del buon senso.
Le acque agitate all’interno del governo non mettono sotto pressione il mercato
azionario e obbligazionario italiano questa mattina, visto che lo spread
viaggia sui 211 punti base.
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