Alfonso Gianni – IOBnews
29 settembre ’18
Più d’uno ricorderà il finale, che non esito a
definire geniale, del famoso film di Sergio Leone Il buono, il brutto e il
cattivo. Naturalmente si tratta di un duello, ma particolare: a tre, solo che
uno ha la pistola scarica; degli altri due uno solo lo sa, ma ha da
preoccuparsi di un solo avversario, a
differenza degli altri che ne devono controllare due. È una metafora per dire
che l’impari scontro nel governo non poteva non finire con la sconfitta di Tria
e che questo non dovrebbe stupire alcuno. Infatti i fatidici mercati hanno
reagito negativamente ma senza eccessi, almeno per ora. La linea di resistenza
di Tria era evidentemente troppo debole. Quel 1,6% (anche se l’avesse portato
al 2,1%) poteva servire al massimo per evitare l’aumento dell’Iva e forse
compensare l’aumento dei tassi di interesse, ma non la minore crescita
evidenziata spietatamente dall’arretramento della produzione industriale
nell’ultimo trimestre, che rende sempre meno credibile una ipotesi virtuosa del
contenimento del debito tramite il sostegno del “denominatore” nella frazione
deficit/Pil. Nello stesso tempo Tria sapeva di non potere usare l’arma delle
dimissioni, così quanto gli altri non potevano pretenderle, malgrado le minacce
iniziali di Di Maio, non nuovo a queste uscite, subito fatte rientrare. Perché
le conseguenze sui mercati sarebbero prevedibilmente state peggiori dello
sforamento di qualche decimale. D’altro canto è sulla collocazione di Tria al
posto di Savona al dicastero dell’economia che si fondava il via libera del
Quirinale al governo Conte e infatti pare che il Capo dello Stato sia
intervenuto in queste ore proprio per scongiurare il cambio della guardia a via
XX Settembre. Il carattere scontato della partita contribuisce a sminuire
l’impatto del risultato, ma non certo a nasconderlo.
Andamento dell’economia reale, occupazione,
livelli di vita
La cosa peggiore sarebbe giudicare questa manovra
economica con la lente deformata e deformante dei vincoli esterni. Quelli posti
da Bruxelles, seppure un poco flessibilizzati, e quelli rappresentati dai
mercati finanziari e dalle agenzie di rating sempre in auge, malgrado il
pessimo ruolo avuto nella crisi mondiale. Non si tratta di infischiarsene
dell’aumento degli interessi da pagare sui nostri titoli, ma perché questa
ottica ci distoglie da quella che dovrebbe essere la preoccupazione principale,
cioè l’andamento dell’economia reale,
dell’occupazione, dei livelli di vita. Non sembri banale questo richiamo ai
“fondamentali”. Anzi in un momento come questo (ri)utilizzare gli strumenti
della critica dell’economia politica è indispensabile per evitare tanto
l’entusiasmo acritico verso la cd. manovra di “popolo” che “cancellerebbe la
povertà” (come ha subito dichiarato uno spudorato Di Maio), quanto le
previsioni di imminenti sciagure sparse dai sostenitori dei parametri violati.
Rispetto a un percorso che prevedeva per il 2018
un rapporto deficit/pil dell’1,6%, per l’anno successivo dello 0,9% e il
raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2020, il passaggio ad uno schema
che postula il 2,4% per tre anni non è lieve. È certamente uno strappo alle
regole imposte dalla Ue. La quale avrà anche il potere di vendicarsi, bocciando
in anticipo la manovra. Ma invocare un simile esito sarebbe il suicidio
terminale per un’opposizione e un assist per i sovranismi di ogni tipo. Tanto
più che l’eventuale procedura d’infrazione scatterebbe a metà del prossimo
anno, dopo elezioni europee che potrebbero rimettere in discussione gli assetti
politici, anche con ricadute sulle normative e le pratiche. La sfida politica
lanciata dal duo Salvini-Di Maio – che tra l’altro così si ricompattano dopo i
malumori del secondo per l’eccessivo protagonismo del primo e i suoi flirt con
Berlusconi – non va quindi sottovalutata
né esaltata.
Come reperire le risorse? Tagli strutturali della
spesa sociale
Infatti se guardiamo ai famosi decimali, la
differenza con i precedenti governi non è così grande. Per molti anni il
rapporto deficit/pil è stato superiore
al 2,4%, da cui si è scesi solo in
quattro occasioni, l’ultima proprio nel 2017 con il 2,3%. Negli anni in cui è
stato al governo Renzi quel rapporto si è situato al 3%, al 2,5% e al 2,6%. È
vero che con la fine del Quantitative Easing le cose si faranno più dure, anche
se la Bce continuerà a reinvestire il capitale rimborsato sui titoli in
scadenza nel quadro del programma di acquisto di attività per un prolungato
periodo di tempo dopo la conclusione degli acquisti netti di attività e in ogni
caso finché sarà necessario. Nel
frattempo però il debito ha toccato la sua vetta oltre il 130% del Pil. Ma in
fin dei conti siamo sopra di uno 0.1% rispetto all’anno precedente. Non è
affatto una pignoleria contabile, perché pone la domanda di come verranno
reperite le risorse per dare attuazione alle promesse elettorali. Certamente
non tutte e nemmeno per la gran parte dall’incremento del deficit, ma molto – e
su ciò sono puntati gli occhi di Bruxelles – da tagli strutturali della spesa
sociale.
Cinque miliardi in meno per il welfare e gli
investimenti pubblici
Il Piano nazionale delle riforme, che accompagna
la nota al Def, ci parla infatti di uno “0,1% di crescita nominale della spesa
pubblica primaria diretta”. Il che comporta, già nelle previsioni, almeno 5
miliardi in meno per il welfare e gli investimenti pubblici. Quindi meno Pil. E
infatti il comparto sanità è già in agitazione. In altre parole non sono i
decimali di sforamento che fanno una politica, ma il reperimento delle risorse,
la qualità e la distribuzione della spesa. La Flat Tax ora prevede tre aliquote
– e quella che entrerebbe subito in funzione non è che un ritocco alla
precedente Iri (imposta sul reddito d’impresa) – se l’aliquota finale si ferma
al 33% e si combina con l’ennesimo immarcescibile condono, la perdita per
l’erario è certa e le possibilità per spese non elettorali inibita. Se si
innalzano le pensioni minime, come effettivamente è necessario fare da tempo,
ma al contempo si spinge per un ricalcolo integrale di tutte quelle in essere
con il contributivo, si colpisce direttamente il mondo del lavoro. Se il
reddito di inclusione, chiamato in modo menzognero di cittadinanza, anziché
venire pagato dall’introduzione di una nuova patrimoniale, viene sostenuto da
chi attualmente paga le tasse senza potere evadere, siamo semplicemente di
fronte ad uno spostamento di risorse dal mondo del lavoro a quello del non
lavoro, senza toccare la rendita e gli alti redditi. In sostanza gli effetti
della manovra potrebbero provocare solo un rimescolamento delle carte negli strati
inferiori della società, soddisfacendo gli interessi elettorali dei contraenti
il patto di governo. Intanto il famoso
1% potrebbe continuare a guardarci sorridente dalle sue alte cime. Meglio se
senza migranti in mezzo. Su questo dovrebbe misurarsi una opposizione, anziché
aggrapparsi a regole vessatorie della Ue. Per questo serve non uno strappo sui
decimali, ma la riscrittura dei Trattati europei.
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