Massimo Franchi – Il manifesto
27 settembre ’18
La
vendetta della Cgil contro Renzi è servita. A tre anni e mezzo dall’entrata in
vigore del Jobs act la Corte costituzionale (come aveva già fatto con Italicum
e riforma Madia) boccia l’architrave della riforma renziana: il contratto a
tutele crescenti. Quello che ha sostituito il contratto a tempo indeterminato,
quello senza articolo 18. Quello che di «tutele crescenti» aveva solo
l’indennità di licenziamento: due misere mensilità per anno di anzianità sul
posto di lavoro perso.
PER
ORA SIAMO ANCORA ad un comunicato stampa e bisognerà attendere la sentenza. Già
il titolo però è inequivocabile: «Illegittimo il criterio di determinazione
dell’indennità di licenziamento». Nel merito la certezza è che «la previsione
di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del
lavoratore – prevista dall’articolo 3 del Decreto legislativo 23 del 2015 (il
primo del Jobs act) è, secondo la Corte, contraria ai principi di
ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del
lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione», che fanno riferimento
alla «condizioni del lavoro» e la «elevazione professionale».
IL
PRONUNCIAMENTO della Consulta riguardava il caso di una lavoratrice (Federica
Santoro) di un’azienda di catering di Roma (la Settimo Senso Srl) licenziata
«per giustificato motivo oggettivo» economico che lo aveva impugnato, assistita
dalla Filcams Cgil di Roma Nord e dall’avvocato Carlo de Marchis. Un
licenziamento palesemente illegittimo che, grazie alla Jobs act renziano, il
datore di lavoro ha potuto effettuare pagando poche migliaia di euro: le 4
mensilità minime.
Il
giudice Maria Giulia Cosentino di Roma chiamò in causa la Corte Costituzionale
nell’agosto 2017 rilevando come «l’indennità risarcitoria» troppo bassa «non
riveste carattere compensativo né dissuasivo ed ha conseguenza
discriminatorie». «A parità di necessità di ridurre il personale, l’azienda privilegerà
sempre la meno costosa e problematica espulsione dei lavoratori in regime di
Jobs act».
MARTEDÌ
LA DISCUSSIONE in Corte Costituzionale è stata tutta incentrata sul decreto
Dignità. L’avvocatura dello Stato che rappresentava il governo (ora giallo-verde)
ha sostenuto che il recente decreto a firma Luigi Di Maio risolvesse la
controversia: aumentando le indennità – a 6 mesi la minima, a 36 la massima –
la Corte doveva rimandare al giudice Cosentino il caso e farle semplicemente
applicare la nuova norma che superava le osservazioni del tribunale di Roma.
MA I
GIUDICI, GUIDATI dalla relatrice Silvana Sciarra hanno evidentemente valutato
che così non fosse. «Il sistema di calcolo delle indennità rimane troppo rigido
e irragionevole per tutelare uno dei principi fondamentali della nostra
costituzione: la dignità del lavoro», commenta Carlo de Marchis. La vittoria
però non è completa: «La giudice Cosentino aveva sollevato anche «il contrasto
con l’articolo 3 della costituzione» per la disparità di trattamento fra i
lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 – e dunque col Jobs act. «La Corte non
lo menziona e dunque non rimette, almeno per ora, in discussione la
cancellazione dell’articolo 18», annota de Marchis.
La
rivalsa della Cgil riguarda anche la stessa Consulta. Il 10 gennaio 2017 l’alta
corte aveva bocciato il referendum abrogativo della Cgil che puntava al
ripristino (e allargamento) dell’articolo 18. «Quel giorno abbiamo deciso di
impugnare il massimo numero di licenziamenti e rivolgerci alla Comitato europeo
dei diritti sociali per contestare la riforma», spiega il responsabile
dell’Ufficio giuridico e vertenze Lorenzo Fassina. Di «decisione importante e
positiva» parla Susanna Camusso.
MENTRE
PIETRO ICHINO attacca la Consulta – «con un solo voto di maggioranza e un
membro giuslavorista (Giulio Prosperetti) in missione» – e sostiene che
mantenendo i valori delle indennità «la sentenza non scalfisce il contenuto
essenziale del Jobs act», la linea della maggior parte dei giuslavoristi è
chiara: «Viene scardinato il Jobs act nella sua previsione dell’indennizzo, il
firing cost propugnato da Pietro Ichino: il giudice tornerà a valutare e
definire l’indennità caso per caso». «Siamo davanti ad un’eterogenesi dei fini:
il Jobs act voleva dare una tutela irrisoria ai licenziamenti illegittimi,
d’ora in poi invece qualunque licenziato può chiedere da 6 a 36 mensilità»,
chiosa l’avvocato Pierluigi Panici. Per Piergiovanni Alleva «la sentenza è
sicuramente un progresso, ma può essere deludente: ha portato a dignità il
sistema di indennizzo esclusivamente monetario, bocciando lo scalettamento,
mentre rimane fuori l’articolo 18 per cui servirebbe un nuovo referendum».
Di
sicuro ora però la politica dovrà intervenire per modificare il Jobs act e
l’articolo 18 potrebbe tornare d’attualità.
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