Roberto Ciccarelli – Il manifesto
30 settembre ’18
Luigi Di Maio è impegnato in una battaglia:
dimostrare che il sedicente «reddito di cittadinanza» del suo governo non è una
«misura assistenzialistica». Così lo ha definito ostinatamente, ancora ieri, il
presidente del Pd Matteo Orfini. Di Maio ha ragione: il suo «reddito» è un
sussidio minimo condizionato all’inserimento lavorativo e alla riqualificazione
professionale dei «poveri assoluti» italiani, e non stranieri residenti,
attraverso le cosiddette «politiche attive del lavoro». Non di assistenzialismo
si tratta, ma di workfare neoliberale. Per avere un sussidio il «povero» deve
lavorare, formarsi, dimostrare di essere disponibile ad «attivarsi» nel periodo
corrispondente all’erogazione del «reddito». Workfare significa: work for
welfare, lavorare per avere un «benessere» (beneficio), rivolto a chi è
obbligato a svolgere lavori per la comunità e a formarsi in cambio di un
compenso variabile, decrescente e vincolato a «obiettivi». Come nel terribile
Io, Daniel Blake, il film di Ken Loach, il workfare è concepito come un modello
performativo alternativo al welfare state considerato «assistenziale».
NON È NULLA DI NUOVO in Italia, un paese che sta
scoprendo solo da poco l’applicazione delle più problematiche tecniche
neoliberali già presenti in Europa o negli Stati Uniti. Il Pd dovrebbe saperlo:
il «reddito» del governo gialloverde è la logica continuazione, con un piano
più ampio, del «reddito di inclusione» («ReI) istituito nel 2016 e oggi
finanziato con circa 2,5 miliardi di euro all’anno. Alla luce degli elementi
conosciuti, fino ad oggi, il «ReI», e i relativi fondi, dovrebbero confluire
nella nuova riorganizzazione del sistema che comprende anche un ripensamento
dei centri per l’impiego. L’indirizzo politico di ciò che M5S chiama
impropriamente, e strategicamente, «reddito di cittadinanza» è definito. I
dettagli saranno formalizzati nella loro completezza in un collegato alla legge
di bilancio – di cui l’aggiornamento del Def è la macro-cornice.
IERI IL VICE-PREMIER ministro dello sviluppo e del
lavoro Di Maio ha ribadito le intenzioni morali con il quale il legislatore si
rivolgerà ai «poveri assoluti». L’obiettivo è mostrarsi inflessibili rispetto a
presunti «free-riders» (approfittatori del workfare). «Non darò un solo euro a
una persona che vorrà stare sul divano senza fare nulla – ha ribadito – Con il
reddito di cittadinanza facciamo un patto: vai nel centro per l’impiego, dove
ti impegni per 8 ore a settimana nei lavori utili e intanto ti devi formare per
un lavoro. Passi la giornata così, poi ti faccio tre proposte di lavoro. Se le
rifiuti, perdi il reddito, se le accetti, perdi il reddito».
QUANTO ALL’IMPORTO totale del sussidio per individuo
Di Maio ha iniziato ad abbozzare una stima. «Il reddito di cittadinanza non dà
780 euro da zero a 6 milioni e mezzo di persone. È integrativo al reddito»,
ovvero «non ci sarà più nessuno che potrà guadagnare o avere una pensione
minima sotto i 780 euro». Per capire come funzionerà non va presa la cifra
complessiva di 10 miliardi di euro ufficialmente destinati al «reddito». I «10
miliardi» sono la somma di fondi diversi: 1,5 per i centri per l’impiego, 2,5
per il «ReI», 330 milioni per la «garanzia giovani», 6-700 milioni per il
sussidio «Naspi» e altre non ancora precisate voci. Le risorse liberate in
deficit permetterebbero di avere più, o meno, 5 miliardi in più per finanziare
una misura destinata a 6,5 milioni di persone. Questa dovrebbe essere la somma
tra circa 4 milioni di «poveri assoluti» italiani, esclusi gli stranieri
residenti «poveri», e circa 1,6 milioni di pensionati che percepiscono un
assegno inferiore ai 500 euro. Questi ultimi saranno destinatari della
cosiddetta «pensione di cittadinanza».
PLATEE DIVERSE, per misure diverse, per le quali è
stato deciso lo stesso tetto di 780 euro. Per i pensionati è prevista
un’integrazione media di 300 euro mensili; per chi è in età di lavoro la cifra
finale potrebbe essere il risultato delle differenza tra il reddito familiare e
il tetto di 780 euro. In media si parla di un sussidio di 480 euro mensili,
cifra che potrebbe essere più bassa perché dipenderà anche dall’analisi di
altri requisiti: la disponibilità morale e soggettiva dell’individuo a cercare
lavoro, verificata dai 550 centri dell’impiego «riformati» in un tempo non
ancora prevedibile e con modalità ancora da scoprire.
DI MAIO HA PRESENTATO su Facebook Mimmo Parisi,
fondatore del «National Strategic Planning and Analysis Research Center», creatore
di un sistema di «On-demand work» – il «Mississippi Works» – adottato dal
governatore del Mississippi Phil Bryant per fare incontrare la domanda e
l’offerta di lavoro in uno degli Stati americani con il costo del lavoro e il
tasso di partecipazione al mercato del lavoro più basso negli Usa. Nelle
settimane scorse era circolata anche la notizie di “colloqui” con esperti
tedeschi che gestiscono il mercato di “mini-jobs” e dei centri di collocamento.
Il MISSISSIPPI è il primo stato Usa ad avere
adottato una tecnologia elaborata dall’Nsparc, il Mississippi Works system,
un’applicazione web e mobile che abbina l’utente ai lavori disponibili nello
Stato incrociando i dati del suo retroterra educativo e quello lavorativo.
Questo è possibile perché esiste un data base centralizzato a livello statale
che permette di profilare il lavoratore mettendolo a disposizione delle
esigenze delle imprese. La piattaforma è stata sviluppata dall’Nsparc diretta
da Parisi – secondo il curriculum vitae docente anche all’università di Catania
– raccoglie e combina i dati di diverse agenzie statali.
L’INCROCIO tra domanda e offerta realizzato su
piattaforma è stato definito Workforce on demand. Sul sito dell’iniziativa, ad
oggi, ci sono 48.177 “lavori” disponibili. Si va dal medico, al vigile del
fuoco, dal barista part-time al baby-sittering. Le posizioni sono profilate
anche rispetto alla distanza in miglia necessarie per raggiungere il lavoro. Il
software può essere scaricato anche su uno smartphone e il lavoratore può procedere
alla ricerca. In sé non è nulla di nuovo. Simili tecnologie sono usate anche
nel nostro paese. Ma sembra che in Mississippi siamo molto soddisfatti al punto
che il governatore Bryant ne ha fatto la cifra della sua politica. Nell’ottica
della competizione tra Stati Usa per attrarre investimenti dalle
multinazionali, la piattaforma è presentata come il supporto che ha dato al
Mississippi un vantaggio rispetto agli stati con una popolazione più numerosa.
Sul territorio hanno installato le loro attività la Nissan, la Toyota e altre.
AL DI LA’ DELLA PRESUNTA efficienza della
piattaforma, è forte l’impressione che l’arrivo di queste imprese in
Mississippi sia dovuto al basso costo del lavoro. Secondo l’analista economico
Corey Miller, va considerata un’altra caratteristica dell’economia locale: il
basso tasso di disoccupazione (4,5%, record in Usa) è accompagnato dal basso
tasso di partecipazione al mercato del lavoro (55.9, il più basso dopo la
Virginia dell’Ovest). Significa che la forza lavoro, anche se on demand, si
“attiva” molto poco. E l’altra metà della popolazione? Semplicemente non è
“attiva”, non è rilevata dalle statistiche.
SITUAZIONI COME QUESTE vanno studiate per capire
cosa accadrà in Italia se, e quando, arriverà la “rivoluzione” della app-che-trova-lavoro.
In un’economia dove la disoccupazione è più che doppia, il tasso di
partecipazione al mercato del lavoro è altrettanto basso (siamo al 58%), e
l’economia informale e in nero è presumibilmente diffusa anche tra i “poveri
assoluti” ci si chiede il grado di efficacie e le prospettive di queste
tecnologie.
DI MAIO STA SCOMMETTENDO sul salto quantico dalla
situazione pre-analogica dei centri per l’impiego verso l’applicazione
dell’intelligenza artificiale in una manciata di mesi. Non è possibile, al
momento, misurare l’attendibilità di tali pretese, ma è possibile constatare
almeno un dato: in Italia non è mai decollato il cosiddetto “fascicolo
elettronico” che, secondo il Jobs Act, avrebbe dovuto costituire il primo passo
per un database capace di incrociare i dati dei cercatori di lavoro. Il modello
di ricerca, on demand, dei profili dovrà anche scontrarsi con l’inadeguatezza
delle infrastrutture digitali dei centri per l’impiego esistenti (nel 72% dei
casi a Sud e nelle isole). Senza contare che qualsiasi intervento sul
collocamento, a partire dall’uso dei dati dei lavoratori, dovrà essere
concordato con le regioni. E non va nemmeno dimenticato che anche i comuni sono
coinvolti nell’attività di profilazione, analisi e controllo sociale del grado di
partecipazione al mercato del lavoro da parte dei lavoratori.
A QUESTI FATTORI va infine aggiunta la carenza del
personale formato e capace di affrontare la rivoluzione digitale che sembra
prospettarsi. In Italia ci sono solo 8 mila persone impegnate nel settore. In
Germania ce ne sono 100 mila. Nel 1,5 miliardi di euro per i centri per
l’impiego sarebbero contemplate anche le assunzioni, oltre che la formazione
(chi la farà?). Il governo punta ad avviare, addirittura da marzo, in tempo per
le Europee 2019, il nuovo modello. Considerata la natura, e la vastità, dei
problemi è un impegno scarsamente credibile.
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