Massimo Franchi – Il manifesto
25 settembre ’18
Il
presidio dei sindacati sotto il ministero dello Sviluppo ottiene subito un
risultato. Il ministro Luigi Di Maio ha convocato per oggi alle 17 Fim, Fiom e
Uilm, ma già ieri c’è già stato un confronto.
ARRIVAVANO
DA TUTTA ITALIA gli operai del settore metalmeccanico nel terzo anniversario
del decreto legislativo del Jobs act di riforma degli ammortizzatori sociali:
un compleanno di rabbia per chi si è visto tagliare un anno di cassa
integrazione straordinaria e in questi mesi rischia di essere licenziato dalla
propria azienda che non può più rinnovare Cigs e contratti di solidarietà.
Le
azienda in crisi riguardano tutti i comparti: dagli elettrodomestici alla
siderurgia, dall’Information Technology all’elettronica per finire con l’automotive
e l’indotto e molti stabilimenti Fca. Con licenziamenti già in atto – i cinesi
di Wanbao hanno già dato il ben servito a 90 lavoratori alla Acc di Mel
(Belluno) – si stimano oltre 80mila lavoratori metalmeccanici interessati dalla
Cassa integrazione straordinaria che arrivano a 189mila sommando quelli delle
144 aziende per cui al Mise è aperto un tavolo di crisi, mentre – denuncia la
Fiom – «31 aziende hanno cessato l’attività in Italia per delocalizzare
all’estero mettendo a repentaglio oltre 30mila posti di lavoro e ci sono 147
gruppi di imprese interessate da procedure di amministrazione straordinaria».
SI
VA DALLE GRANDI multinazionali dell’elettrodomestico – Electrolux e Whirlpool –
alla Tecno di Reggio Emilia e la Comital di Torino che sono in procedura
fallimentare, per passare alla Emarc di Chivasso (Torino), la De Masi di Gioia
Tauro, la Jabil di Caserta, la Imat Marcegalia di Pordenone, la Piaggio di
Savona, la Jp Industries di Fabriano e di Nocera Umbra, la Om Carrelli di Bari.
Senza dimenticare le aziende dell’indotto dell’ancora non ripartita Alcoa di
Portovesme, quelle del petrolchimico di Siracusa, la Comdata di Padova, la Agis
di Vicenza.
«Non
ne possiamo più, il Jobs act ci fa licenziare anche se l’azienda ha buone
prospettive», è la frase che si sente raccontare più spesso.
IL
MINISTRO DI MAIO ha buon gioco a denunciare «l’assassinio politico» operato col
Jobs act «una riforma folle che umilia le persone». Molto meno nel trovare
soluzioni: ha annunciato da settimane il ritorno della cassa integrazione per
cessazione che consentirebbe ai 318 lavoratori della Bekaert di Figline
Valdarno di avere 12 mesi di «cassa» in più – il testo però non si vede e la
scadenza del 3 ottobre per i licenziamenti si avvicina mentre tante altre
aziende, come la Comital in procedura fallimentare non sanno se saranno
inserite – e ora dovrà dare risposte alla stragrande maggioranza di lavoratori
a cui la cigs per cessazione non serve.
«NON
CI ACCONTENTEREMO di proroghe, quello che serve è una riforma complessiva degli
ammortizzatori sociali», avverte il segretario generale della Uil Rocco
Palombella. Sulla stessa linea Francesca Re David (Fiom): «Bisogna bloccare
l’emergenza, ma poi bisogna pensare ad ammortizzatori universali con
solidarietà difensiva e espansiva che prevedano la riduzione dell’orario di
lavoro necessario per affrontare l’epoca di innovazione che ci aspetta è ora di
finirla con le disuguaglianze. Occorre connettere gli ammortizzatori sociali
allo sviluppo di politiche industriali e innovazione». Ora, spiegano i
sindacati, ad un’azienda costa meno licenziare che mandare i lavoratori in
cassa integrazione o con contratti di solidarietà. «In ogni caso non
accetteremo la Naspi o il reddito di cittadinanza come soluzione», ha aggiunto
il segretario generale della Fim-Cisl Marco Bentivogli.
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