Francesca Barbieri e Alberto
Magnani – Il sole 24 ore
29 settembre ’18
Il reddito di cittadinanza potrebbe cadere sulle
spalle dei giovani. Letteralmente: le coperture previste dal governo
gialloverde per sostenere la misura rischiano di sottrarre finanziamenti
europei destinati al contrasto della disoccupazione degli under 30, a partire
dalla cosiddetta Garanzia giovani.
La misura lanciata da Bruxelles nel 2014 rientra,
infatti, fra i programmi cofinanziati dal Fondo sociale europeo: il fondo
Ue di contrasto alla disoccupazione indicato dal governo come fonte per la
copertura dei 780 euro mensili promessi in campagna elettorale. Attingere alle
risorse Fse significherebbe impattare sulle risorse destinate alla Youth
guarantee, sempre che i propositi della maggioranza non si incaglino sulle regole
europee per i progetti che possono (o non possono) essere finanziati.
Cosa c’entrano i fondi europei con il reddito di
cittadinanza
Prima, però, facciamo un passo indietro. Chi lo
dice che il governo Lega-Cinque stelle è intenzionato ad attingere al budget
europeo per finanziare il reddito di cittadinanza? La fonte è abbastanza
attendibile: il governo Lega-Cinque stelle. Alla voce apposita del «contratto
del cambiamento», stipulato lo scorso maggio, si legge infatti che per istituire
il reddito di cittadinanza «andrà avviato un dialogo nelle sedi comunitarie al
fine di applicare il provvedimento A8-0292/2017 approvato dal Parlamento
europeo lo scorso 6 ottobre 2017, che garantirebbe l'utilizzo del 20% della
dotazione complessiva del Fondo Sociale Europeo (Fse)».
Il fondo sociale europeo, come abbiamo visto, è
una delle architravi che sostengono l’intero impianto della Garanzia giovani,
attuata nei singoli Paesi Ue attraverso uno schema di cofinanziamento (i
progetti vengono pagati sia dall’Ue che dalle singole regioni) e gestione
condivisa (i programmi operativi sono negoziati tra le autorità nazionali e la
Commissione). Per il nostro Paese, ad esempio, la dote iniziale è stata di 1,5
miliardi di euro: 567,5 milioni di euro attinti dal Pon Occupazione Giovani
(IOG), gestito dall’Anpal, l’Agenzia nazionale delle politiche attive; 567,5
milioni di Fondo sociale europeo e 378 milioni di cofinanziamento nazionale,
con il coinvolgimento delle regioni chiamate a gestire la maggior parte delle
risorse. A seguito della revisione del bilancio Ue nel 2017 e di una nuova
iniezione di fondi europei, la Garanzia Giovani si è aperta una seconda fase
che ha portato all’Italia una dote aggiuntiva di circa 900 milioni di euro da
spendere entro il 2020. È proprio da questo tesoretto che il Governo
giallo-verde potrebbe attingere risorse per il reddito di cittadinanza.
Un percorso a ostacoli
Il condizionale è d’obbligo, perché la scelta
stessa del Fondo sociale europeo come fonte di copertura si scontra su alcuni
ostacoli tecnici. Il primo riguarda le dimensioni microscopiche delle risorse
che potrebbero essere attinte dal Fondo sociale europeo nel corso dell'attuale
quadro finanziario pluriennale dell’Ue (2014-2021). Il nostro Paese, come tutti
gli Stati membri, può infatti attingere a una quota (e non a tutti) i 10
miliardi di budget annuo del Fondo. Oggi in particolare, come ha scritto il
Sole 24 Ore, si parlerebbe di un ‘prelievo' da circa 330 milioni di euro:
briciole rispetto ai 17 miliardi previsti per finanziare la misura su scala
annua. Il secondo ostacolo riguarda il futuro stesso del Fondo sociale europeo
e la sua compatibilità con i progetti della maggioranza. Nella sua
riformulazione per il periodo 2021-2027, il Fse vincolerà l'erogazione di fondi
a progetti che incentivino occupazione e coesione sociale in forma attiva. Non
esattamente lo spirito, e le finalità, del reddito di cittadinanza.
Il bilancio a luci e ombre della Garanzia
Le risorse drenate dal Fse verrebbero sfilate a un
programma che ha messo a segno qualche numero, sia pure fra le tante fragilità
della “Garanzia” e, soprattutto, del suo impatto reale sul mercato del lavoro.
L’ultimo bilancio dell’Anpal, aggiornato a fine
maggio 2018, parla di oltre 1,3 milioni di giovani registrati al programma, al
netto di tutte le cancellazioni di ufficio.
I “presi in carico” – i giovani che sono stati
ricontattati dai servizi per l’impiego – sono il 77,6%, cioè circa un milione.
Il numero di ragazzi che è stato preso in carico dai centri per l'impiego è
nettamente più elevato in confronto a quanto registrato per le agenzie per il
lavoro private (79% contro 21%), ma nelle Regioni del Nord-Ovest il rapporto si
inverte: il 21,9% dei giovani è stato preso in carico dalle strutture
pubbliche; il 78,1% dalle agenzie.
Del milione di giovani presi in carico, circa
550mila sono stati avviati a un intervento di politica attiva, che nel 58,9%
dei casi è un tirocinio extra-curriculare. Seguono gli incentivi occupazionali
(23,7%) e i corsi di formazione (12,8%) e poi, via via, tutte le altre misure
(servizio civile, autoimpiego, apprendistato).
Gli occupati alla fine di questo percorso sono
270.566 al 31 maggio 2018, il 50,4% di chi è partito con la misura di politica
attiva, una percentuale che scende a poco più del 27% se consideriamo invece il
milione di giovani contattati dai servizi per l’impiego.
Il tasso di inserimento occupazionale che si
registra al termine dell'intervento passa dal 42,8% a un mese dalla conclusione
del percorso al 51,4% quando il periodo considerato si allunga a sei mesi.
Nonostante timidi segnali di miglioramento le
tinte restano molto fosche se si mettono sotto i riflettori i Neet: i giovani
che non studiano né
lavorano, tra gli obiettivi fondamentali della stessa Garanzia.
Nonostante in valore assoluto i Neet siano passati
dai 2,4 milioni del 2014 a 2,19 milioni del 2017, la quota di under 30 che
rientra ancora nella categoria dei «Né né» è pari al 24,1% dei giovani under
30, contro una media Ue del 13,4%, a distanza siderale da paesi come Germania
(8,5%) e Olanda (5,9 per cento).
Gli standard italiani nascono tra l’altro una
frattura interna fra il Nord, dove i Neet sono il 16,7%, e il Sud, dove la
percentuale è più che doppia, al 34,4%.
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