Gwynne Dyer – Internazionale
01 Ottobre 2018
Gioia e orgoglio per le donne saudite che
finalmente hanno avuto il permesso di guidare. Contentezza per i concessionari
che prevedono tanti nuovi affari. E sgomento per le famiglie del milione e
quattrocentomila autisti, quasi tutti provenienti dall’Asia meridionale, che
guadagnavano circa mille dollari al mese scarrozzando in giro le donne saudite.
Tuttavia per cambiare l’Arabia Saudita servirà molto altro.
Poco prima che la guida diventasse legale per le
donne, sono state arrestate diciassette attiviste che avevano protestato per
anni contro il divieto di guidare. Otto sono state liberate, ma le altre potrebbero
essere processate in un tribunale speciale contro il terrorismo e vedersi
inflitte pesanti condanne. La mano destra sa cosa fa la mano sinistra? Certo
che sì.
Consentire alle donne di guidare rientra nel
progetto del principe ereditario Mohammed bin Salman finalizzato alla conquista
del sostegno popolare attraverso la modernizzazione di alcuni aspetti della
vita quotidiana. Dare l’impressione di arrendersi alle pressioni popolari di
sicuro non rientra nel suo programma. Il cambiamento deve sembrare piuttosto
una concessione elargita, non un cedimento di fronte alle proteste.
È un’iniziativa meno spettacolare rispetto alla
campagna contro la corruzione condotta l’inverno scorso, che ha portato alla
detenzione di 56 importanti esponenti della famiglia reale e uomini d’affari
(nel miglior albergo della capitale) finché non hanno “restituito” parte dei
loro guadagni illeciti.
L’idea che Mohammed bin Salman stia liberalizzando
il sistema saudita è una fantasia
Tutta la vicenda pare abbia fruttato 100 miliardi
di dollari al governo, anche se nessuno dei ladri ha visto un’aula di
tribunale, men che meno una prigione. Il messaggio però era lo stesso: io sto
dalla parte della gente comune e faccio le cose giuste, ma decido io quando e
come.
L’idea che Mohammed bin Salman stia aprendo il
sistema saudita è una fantasia. Dopo aver messo da parte in modo spietato tutti
i pretendenti al trono - suo padre, re Salman, ha 82 anni ed è malato – ha
centralizzato il potere come mai in passato. L’Arabia Saudita era una monarchia
tradizionale, profondamente conservatrice che ha sempre garantito alle élite la
possibilità di esprimersi. Adesso è una dittatura.
Mohammed bin Salman è noto per essere un uomo
impulsivo e uno dei suoi errori più grandi è stato quello di invitare l’inviato
speciale delle Nazioni Unite Ben Emmerson a visitare il paese affinché
riferisse sul modo in cui al suo interno si conciliava la necessità di
prevenire il terrorismo con il rispetto per i diritti umani. Emmerson è tornato
all’inizio di maggio. Il suo rapporto è stato insolitamente sincero per essere
un documento ufficiale, e in una successiva intervista è andato ben oltre
quanto aveva scritto.
Al Guardian ha riferito come le norme
antiterrorismo saudite siano scritte in modo tale da criminalizzare qualsiasi
forma di dissenso. La tortura nelle carceri saudite è un luogo comune, i
funzionari colpevoli non vengono puniti e l’Arabia Saudita “sta vivendo la più
spietata repressione del dissenso politico mai sperimentata dal paese negli
ultimi decenni”.
“Le notizie sulla liberalizzazione dell’Arabia
Saudita sono completamente fuori luogo”, ha detto Emmerson. “Il sistema
giudiziario adesso è completamente sotto il controllo del re ed è privo di
qualsivoglia parvenza di indipendenza rispetto all’esecutivo. In parole povere,
non esiste alcuna forma di separazione dei poteri in Arabia Saudita, né libertà
di espressione, stampa libera, sindacati efficienti o una società civile
funzionante”.
Fallimenti internazionali
I successi riportati da Mohammed bin Salman nel
reprimere il dissenso interno lo hanno inoltre reso fin troppo sicuro di sé
riguardo le sue doti di politica estera. Ha convocato il primo ministro
libanese Saad Hariri a Riyadh e lo ha costretto a dimettersi, salvo poi vedere
Hariri tornare al potere in alleanza con Hezbollah, un gruppo islamista sciita
che Mohammed bin Salman detesta con tutto se stesso.
Ha dichiarato un blocco ai danni del piccolo ma
ricchissimo vicino dell’Arabia Saudita, il Qatar, per costringerlo a chiudere
il canale televisivo Al Jazeera, il più influente notiziario in arabo, e a
spezzare i suoi legami con l’Iran, il paese che Mohammed bin Salman detesta più
di qualsiasi altro. Un anno dopo Al Jazeera è viva e vegeta e il Qatar si è ulteriormente
avvicinato all’Iran.
Il suo più grosso abbaglio lo ha preso lanciando
un intervento militare nella guerra civile in Yemen per sconfiggere gli houthi,
una tribù sciita che ha conquistato la maggioranza del territorio yemenita e
che a suo parere (errato) è controllata e armata dall’Iran.
I bombardamenti aerei dell’Arabia Saudita hanno
ucciso migliaia di persone, i suoi alleati degli Emirati Arabi Uniti hanno
migliaia di soldati sul campo e tre anni dopo i primi attacchi gli houthi
controllano ancora le aree più popolose dello Yemen, compresa la capitale.
Non è proprio il Vietnam dell’Arabia Saudita,
visto che i sauditi non hanno truppe sul campo e gli emiratini fanno ricorso in
larga misura a mercenari stranieri, ma l’intervento in Yemen è molto costoso,
profondamente imbarazzante e senza possibilità di vittoria. Nel lungo periodo,
potrebbe significare la rovina di Mohamed bin Salman.
In Arabia Saudita la ricchezza è stata ampiamente
condivisa più che nella maggioranza dei paesi ricchi di petrolio, e per la
maggioranza che non si interessa alla politica la vita è ancora piuttosto
bella. Persino per le donne le cose stanno piano piano migliorando: il 60 per
cento dei laureati sauditi sono donne, e adesso possono addirittura guidare.
Oggi però il paese è guidato da un dittatore volubile e troppo sicuro di sé.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
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