Enrico Pugliese – Rassegna sindacale
26 settembre ’18
La
situazione italiana sul versante del mercato del lavoro non è molto diversa dal
resto dell'Europa. C'è ormai tra i governi dei diversi Paesi – peraltro a
prescindere largamente dal colore politico – un orientamento comune che non
prevede alternative: si tratta della priorità data in assoluto alle politiche
di flessibilità e di riduzione delle "protezioni dell’impiego",
unitamente alla convinzione profonda che i problemi occupazionali si risolvano
sostanzialmente operando sull'offerta di lavoro, tutt'al più con l'aggiunta di
più o meno generosi sussidi alle imprese per l'assunzione di nuovo personale.
Il
nostro Paese si colloca perfettamente all’interno di questo orientamento. Basti
al riguardo pensare a quell'insieme di provvedimenti che va sotto il nome di
Jobs Act e alla grande differenza tra questo e il Jobs Act americano, emesso
qualche anno prima e dal quale il nostro prende il nome. Quest'ultimo si
fondava anche e soprattutto su massicci investimenti pubblici, dal
finanziamento di opere infrastrutturali a quello del sistema scolastico,
tematiche che sono assolutamente ignorate nella legge italiana, che punta tutto
sulla flessibilità.
Nel
provvedimento americano si trovano voci quali "investimenti urgenti, per
strade, ferrovie e aeroporti" o misure destinate a "evitare
licenziamenti di insegnanti, modernizzando oltre 55 mila scuole
pubbliche". Al contrario il Jobs Act italiano riguarda il diritto del
lavoro e intende incidere sulle relazioni sindacali: tematiche che nella legge
americana non sono proprio trattate. Naturalmente, non si può attribuire al
Jabs Act la causa della grave situazione occupazionale italiana, soprattutto
nel Mezzogiorno, così come non esiste una base documentaria che permetta di
vantare miracolosi risultati sul piano dell'occupazione, sul piano qualitativo
o sullo stesso piano quantitativo.
Cominciamo
dal primo aspetto, che presenta le implicazioni sociali più serie per la
condizione dei giovani e per la crescita, assolutamente squilibrata tra
occupazione precaria (in particolare a tempo determinato) e occupazione a tempo
indeterminato. La crescita occupazionale registrata è infatti basata su
rapporti di lavoro del primo tipo. D'altronde, rapporti di lavoro del secondo
tipo – così come li abbiamo conosciuti non solo a partire dallo Statuto dei
lavoratori, ma a partire dal Codice civile del 1942 – non sono più contemplati
nel nostro Paese da quando è in vigore il Jobs Act.
Ciò
perché il licenziamento senza giusta causa non prevede, se non in casi
estremamente eccezionali, la reintegra sul posto di lavoro, ma solo un
indennizzo proporzionato al periodo di lavoro trascorso in azienda: misera
compensazione per una tragedia esistenziale quale la perdita del posto di
lavoro, soprattutto per un ultracinquantenne, che dimostra la totale
insensibilità per le implicazioni umane e sociali degli interventi nelle
attuali linee di politiche del lavoro prevalenti in Europa, non solo in quelle
italiane. Il che, per quel che riguarda i giovani, si riflette in un diffuso
disagio legato alla loro persistente esclusione.
Il
mercato del lavoro italiano ed europeo è stato negli ultimi decenni largamente
destrutturato, con una generalizzata riduzione dei diritti effettivamente
fruibili dei lavoratori, senza vantaggi per alcuna categoria. In passato,
dominava la tesi basata sulla contraddizione tra insiders (lavoratori centrali
e protetti) e outsiders (gli altri: giovani, precari e quant'altro). E secondo
questa tesi, il costo delle protezioni e dei vantaggi dei primi sarebbe stato
all'origine delle scarse opportunità e protezioni dei secondi (nonché di un
disincentivo agli investimenti e alIa crescita). Ora che i lavoratori centrali,
i core workers (come si dice in gergo) sono in situazioni di difficoltà, la
tesi ha perso credibilità. Non a caso si parla di midsiders (garantiti a metà).
La
flessibilità è stata richiesta o imposta negli ultimi decenni, e con
imposizione più decisa negli ultimi anni, alle organizzazioni dei lavoratori in
cambio di occupazione e sviluppo, o meglio della promessa di occupazione e
sviluppo. Ma il quadro che abbiamo davanti ora in Paesi come l'Italia si
caratterizza con una crescita economica più modesta di quella media europea
(sui cui dati pesa peraltro il ruolo dei Paesi dell'Europa mediterranea),
accompagnata da una parimenti modesta crescita occupazionale. Non solo. Va
anche ricordato che in Italia all'elevato numero di nuovi occupati non
corrisponde affatto un’analoga crescita delle ore lavorate. E questo fatto,
dato che il lavoro è, o almeno dovrebbe essere, retribuito su base oraria,
spiega anche la persistente ineguale distribuzione del reddito dovuta alla
scarsa crescita dei salari.
Comunque,
per quel che riguarda l'occupazione, non si può negare un incremento, sia pure
con tutti i limiti indicati. E certamente un buon segno è la ripresa
occupazionale nel Mezzogiorno degli ultimissimi anni, durante i quali
l'occupazione, dopo aver toccato il fondo, è aumentata in misura più che
proporzionale rispetto al resto del Paese.
Ma
continuano a essere preoccupanti i dati relativi ai tassi di disoccupazione e
alla scarsa partecipazione al mercato del lavoro in quelle regioni, ma anche
gli altri indicatori del mercato del lavoro ben analizzati. Insomma, dopo tanti
interventi di politiche del mercato del lavoro – e di assenza di politica
economica e di investimenti –, la situazione del Mezzogiorno presenta,
aggravati, gli stessi problemi di sempre.
Due
sono infatti le aree di maggior svantaggio: quella territoriale (il
Mezzogiorno) e quella demografica (i giovani) e dunque particolarmente
svantaggiati restano i giovani del Mezzogiorno. Nel Sud lo svantaggio giovanile
è aumentato proprio negli ultimi anni, durante i quali le politiche del lavoro
sono state sempre accompagnate dalla perentoria affermazione che esse erano
orientate a vantaggio dei giovani. E al riguardo è opportuno ricordare che
l'incremento occupazionale realizzatosi negli ultimi anni nel Paese – collegato
o meno al Jobs Act – si è concentrato per l'80% sugli ultracinquantenni.
Probabilmente
buone intenzioni non sono mancate alla base delle iniziative che volta per
volta sono state prese: penso al programma europeo "Garanzia Giovani”. Ma
quel che conta sono i risultati ed essi – soprattutto per il Mezzogiorno – sono
stati magrissimi. In realtà, dove il mercato del lavoro era più dinamico al
periodo di formazione ha fatto seguito una qualche opportunità occupazionale,
dove la disoccupazione era più grave, e dove c'era maggior necessità di
intervento, queste opportunità non si sono registrate.
La
lezione generale che si può trarre da questo, come da molteplici altri casi, è
che gli interventi volti a sviluppare l'occupazione non possono limitarsi al
mercato del lavoro e all'azione sull'offerta, cioè sulle sue caratteristiche e
i suoi comportamenti. In effetti, nel Paese continuano a mancare scelte di
politica economica capaci di attivare la domanda di lavoro in settori
strategici, ma anche in attività a carattere maggiormente labour intensive,
capaci di assorbire un’ancora insoddisfatta offerta di lavoro.
La
stessa problematica del mismatch è sicuramente di rilievo ovunque nel nostro
Paese, ma nel Mezzogiorno presenta un'aggravante consistente nel fatto che le
possibilità di occupazione per i giovani titolari di qualifiche e credenziali
elevate esistono altrove. E questo spiega l’accelerata tendenza all'emigrazione
all'estero e soprattutto all'interno dei giovani meridionali. Essi sono spesso
destinati a cattiva occupazione anche nelle aree di immigrazione, ma fuggono da
una situazione peggiore a casa loro.
Si
parIa al riguardo anche di overeducation o di overskill, come segnali delle
discrasie tra domanda e offerta di lavoro, ma anche queste – e a maggior
ragione – difficilmente possono essere affrontate operando sull'offerta. Quanto
poi ai termini che usiamo, forse è il caso di rendersi conto della loro
inadeguatezza. Con un'incidenza dei laureati sul totale dell'offerta di lavoro
che non ci colloca affatto bene nelle graduatorie europee, ritenere che il
livello di scolarizzazione sia troppo elevato – perché questo significa
overeducation – appare davvero fuori luogo. E lo stesso vale per quel che
riguarda il discorso sui Neet (“Not in employment, education or training"):
giovani che si trovano fuori dal lavoro, dalla scuola e da strutture di
formazione professionale. Questa etichetta viene loro attribuita quasi che
fossero essi stessi responsabili della situazione in cui versano. Ciò senza
considerare il fatto che alcuni di loro sono fuori dalla scuola (perciò
"not in education") per avere terminato, magari anche con successo,
il loro ciclo scolastico.
Le
politiche del lavoro sono uno degli ambiti nei quali si manifesta anche
l'efficacia di un sistema di welfare nazionale. Nelle quattro aree canoniche
nelle quali si esprime un moderno sistema di welfare – casa, lavoro, scuola e
sanità – quella del lavoro è importante e complessa. Essa riguarda non solo il
sostegno delle forze di lavoro che non possono essere occupate per difficoltà
oggettive o soggettive (sussidi di disoccupazione, pensioni di vario genere),
ma anche la forza lavoro effettivamente disponibile, valorizzandola e
valorizzandone l'impiego.
A
questo contribuiscono le misure riguardanti le politiche del lavoro, compresi i
servizi per l'impiego nella misura in cui concorrono a dare sbocco adeguato ai
titolari di capacità lavorativa, impedendo che queste si disperdano. Ma proprio
per questo il welfare dal punto di vista del lavoro può essere considerato
anche un’importante area occupazionale, non perché vi si possa collocare –
magari clientelarmente – un'offerta di lavoro non collocabile altrove, ma
perché serve alla valorizzazione della forza lavoro, cui la scuola, la
formazione, la stessa protezione della salute concorrono in maniera
determinante. E ciò è foriero di sviluppo. In questo modo va letta la frase –
che altrimenti può apparire un vuoto slogan – "il welfare crea
lavoro".
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