Alberto Magnani– Il sole 24 ore
30 settembre ’18
Reddito di cittadinanza, pensione di cittadinanza,
abolizione della riforma Fornero. Tre fra i capisaldi della «manovra del
popolo» annunciati ieri dal vicepremier Luigi Di Maio rischiano di scaricarsi
su un bersaglio comune: i giovani, intesi come il blocco
anagrafico che è appena
entrato nel mercato del lavoro o cercherà di metterci piede nei prossimi anni.
Ad aumentare la “tassa” sulle nuove generazioni
sono soprattutto le due misure che hanno tenuto sotto pressione fino all'ultimo
l’esecutivo, l’abolizione della Fornero in primis e il reddito di cittadinanza
(oltretutto destinato a sottrarre fondi al programma europeo Garanzia Giovani).
Il
reddito di cittadinanza si finanzia (anche) con i fondi della Garanzia giovani
Un tandem di misure dai costi importanti - 7
miliardi di euro la prima, 10 miliardi la seconda - senza garanzie chiare sui
risultati. Il reddito di cittadinanza potrebbe creare più spese che benefici,
mentre il nuovo sistema pensionistico, la cosiddetta quota 100, si tradurrebbe
in un carico fiscale ultradecennale per le nuove generazioni. Senza considerare
alcuni effetti collaterali a misure minori, come un incremento del precariato.
La
zavorra della quota 100 e il (finto) contrasto giovani-anziani
Iniziamo dalla seconda. Il costo più tangibile,
per le nuove generazioni, arriverebbe dall’introduzione della cosiddetta quota
100 sulle pensioni (un sistema che permette di andare in pensione in anticipo
quando si raggiunge la somma 100 fra età anagrafica e anni totali di
contributi). Qui si parla di un costo di 7 miliardi per il 2019, ma la spesa
rischia di spalmarsi soprattutto sul lungo periodo. Il perché è abbastanza semplice. Se si permette di
abbassare l’età pensionsabile rispetto ai 67 anni attuali,
le opzioni sono due: abbassare l’assegno pensionistico di chi sceglie di
ritirarsi prima o far pagare il tutto alla fiscalità generale. A quanto si apprende la via
percorsa dalla quota 100 dovrebbe essere la seconda, traducendosi in un maggior
carico di tasse per chi verserà i contributi in futuro. «È abbastanza chiaro
che i costi si scaricherebbero in maniera sempre maggiore sui giovani, cioè chi
lavorerà in futuro» spiega Francesco Daveri, ordinario di Politica economica all’Università
di Parma e docente di Macroeconomia alla business school della Bocconi.
Sia Salvini che Di Maio hanno sostenuto, però, che
la platea di lavoratori in uscita (400mila) lascerebbe spazio a un numero
identico di giovani in entrata. Un gioco a somma zero che, però, trova pochi
riscontri nei fatti. «Dietro sembra
Pensioni,
Fornero: «Quota 100? Da Salvini solo uno slogan. A
pagare saranno i giovani»
esserci l’idea di fondo che l’economia italiana
sia imbalsamata, sempre con lo stesso numero di lavoratori: se ne escono 100 ne
entrano 100. Ma non è così semplice» dice Carlo Mazzaferro, professore al
dipartimento di Scienze statistiche all’Università di Bologna. Anzi, in realtà
emerge il contrario: l’aumento
del lavoro nelle fasce più adulte delle popolazione è sempre coinciso con
l’aumento del lavoro anche per quelle più giovani. È vero che negli anni della
crisi si è creata una polarizzazione sfavorevole alle nuove generazioni e,a
tutt’oggi, il lavoro over 50 cresce a ritmo molto più intenso di quello under
30: il tasso
di occupazione della fascia 55-64 anni è salito
46,2% al 52,2% fra 204 e 2017 contro il salto da 34,7% al 36% di chi ha fino a
29 anni. Ma in entrambi i casi le assunzioni sono vincolate a fattori diversi
da una questione di flussi fra uscite ed entrate di risorse nella forza lavoro,
come la crescita economica (tutt’altro che brillante per l’Italia), il cuneo
fiscale (elevato) e, in generale, la capacità della aziende di assorbire certe
risorse.
Il
«bersaglio mancato» del reddito di cittadinanza
Il reddito di cittadinanza, il contributo da 780
euro per chi è disoccupato e maggiorenne, dovrebbe rivolgersi a invece un
totale di 6,5 milioni di persone, senza differenziazioni particolari sull’età
anagrafica. L’impatto teorico dovrebbe essere quello di ridurre la povertà
relativa e di incentivare, in parallelo, una ricerca attiva del lavoro: i
beneficiari sono tenuti a iscriversi ai centri per l’impiego, accettare una delle prime tre
proposte che gli vengono avanzate nell’arco di
due anni e seguire corsi di formazione. La manovra prevede anche una misura
pressoché analoga in ambito prevideziale, chiamata «pensione di cittadinanza» e
consistente nell’integrare gli assegni pensionistici inferiori ai 780 euro fino
a che non si raggiunge quella soglia. L’idea del reddito di cittadinanza
potrebbe servire a contrastare la povertà relativa delle nuove generazioni in
alcune regioni del Mezzogiorno, dove i tassi di disoccupazione viaggiano anche
oltre il 50% nella fascia 15-24 anni e intorno al 30% nel blocco dei 25-34enni.
Ma questo non si traduce in maggiore occupazione,
con il risultato di aumentare il peso della fiscalità su tutti (giovani e meno
giovani) senza risolvere i disagi della categoria più vulnerabile (i giovani,
appunto). I problemi sono almeno due. In primo luogo l’incentivo monetario
potrebbe fare da deterrente all’accettazione di un lavoro o favorire l’economia
«informale», cioè in nero, permettendo ad alcuni beneficiari di mantenere un
lavoro non dichiarato e incassare in parallelo il sussidio. In secondo luogo
non è detto che i centri per l’impiego riescano davvero a produrre tre
richieste di lavoro pro capite nell’arco di 24 mesi, se si considera che fra
2003 e 2010 (dati Isfol) hanno ricollocato meno del 3% di chi cercava lavoro.
Va detto che la manovra accenna anche a una riforma delle strutture in
questione, ma non è chiaro come verrà attuata e quali saranno le risorse
specifiche scorporate dal pacchetto da 10 miliardi di euro per la misura.
Il
possibile boomerang dell’aliquota al 15%
Un altro inconviente della manovra potrebbe
nascondersi, curiosamente, in un’agevolazione: l’aliquota del 15% sulle partite Iva per i
redditi fino ai 65mila euro. Il primo step verso quella che dovrebbe
trasformarsi nella flat tax, anche se di “flat” è rimasto poco e si marcia
verso un sistema con almeno due aliquote di imposizione. Il tetto, spiega
Mazzaferro, potrebbe spingere i datori di lavori a preferire il lavoro autonomo
all’occupazione dipendente, alimentando la stessa piaga nel mirino della
componente pentastellata del governo: la
precarietà. Il ragionamento di base è piuttosto crudo, ma realistico. Se si può scegliere di evitarsi i costi di assunzione,
ha senso “ostinarsi” su stabilizzazioni che richiedono procedure
burocratiche e fiscali così onerose? «Le imprese ragionano in base agli stimoli
che ricevono - dice Mazzaferro - È chiaro che bisogna di aspettare e vedere
come si evolveranno davvero questo norme. Ma se qualcosa conviene, chi
impedisce alle imprese di metterla in pratica?».
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