Cristiana Pulcinelli – la striscia rossa
24 settembre ’18
La
sanità italiana non ha un problema di sostenibilità quanto piuttosto di equità.
Federico Spandonaro, professore di economia applicata all’università Tor
Vergata di Roma e presidente di, Consorzio per la Ricerca Economica Applicata
in Sanità, è chiaro: nonostante se ne parli spesso, quello della sostenibilità
è un falso problema. In primo luogo perché l’Italia spende poco per la sanità,
circa il 30% in meno di quello che spendono in media gli altri Paesi
dell’Europa occidentale. Un divario che è aumentato negli ultimi anni portando
l’Italia verso le quote di investimento dell’Europa orientale. Del resto, quando
un Paese non cresce economicamente, la tendenza è quella di disinvestire sul
welfare, esattamente come sta accadendo ai paesi dell’Europa orientale e
all’Italia.
In
secondo luogo perché negli ultimi anni abbiamo raggiunto un punto di
sostanziale equilibrio finanziario: il disavanzo è ormai inferiore all’1% del
finanziamento. Insomma, abbiamo “una macchina complessa ma governabile”,
secondo l’ultimo rapporto CREA Sanità. Infine, perché la sostenibilità non è un
problema in sé, ma dipende da quello che si vuole garantire ai cittadini: si
modula l’assistenza in base alle risorse. Sapendo che tutto a tutti non si può
dare. E forse, come vedremo, non è neanche giusto dare.
A
fronte di questa bassa spesa sanitaria, noi italiani abbiamo una performance
niente male. Dopo anni di tagli e traversie, secondo uno studio pubblicato a
giugno scorso sulla rivista medica inglese The Lancet, siamo ancora al nono
posto per accesso alle cure e qualità del servizio, subito sotto i paesi
scandinavi, la Svizzera, l’Olanda e l’Australia. Quello che ci premia in
particolare è l’elevata aspettativa di vita. L’Italia infatti ha un’aspettativa
di vita alla nascita di 85,0 anni per le donne e 80,6 per gli uomini, insomma
siamo uno dei Paesi più longevi al mondo; anche la speranza di vita residua a
65 anni (18,9 anni per gli uomini e 22,2 per le donne) è, per entrambi i
generi, più elevata di un anno rispetto alla media europea.
Quanto
questo risultato sia merito del nostro sistema sanitario e quanto invece del
fatto che viviamo in un Paese con un buon clima e con una dieta salutare come
quella mediterranea, non è dato sapere. Quello che sappiamo però è che se qui
si vive di più che negli altri Paesi, non si vive però meglio. L’aspettativa di
vita in buona salute in Germania, ad esempio è di ben tre anni superiore alla
nostra, ricorda Spandonaro. Rispetto alla media della UE è decisamente peggiore
anche la condizione degli over 75 con patologie di lunga durata o problemi di
salute. Un primo problema è quindi relativo alla qualità della vita.
A
confermarlo c’è il rapporto dell’osservatorio GIMBE, un’organizzazione
no-profit che svolge attività di formazione e ricerca, che stila una classifica
del servizio sanitario nazionale per diversi indicatori in relazione alla media
europea. Ne emerge che su alcuni fronti siamo molto indietro, per citarne
alcuni: l’attività fisica negli adulti e negli adolescenti (dove raggiungiamo
il ventottesimo posto), il fumo tra gli adolescenti (trentesimo posto), le
prescrizioni di antibiotici, il numero dei bambini vaccinati, il rapporto tra
infermieri e medici nelle strutture, gli stipendi degli operatori sanitari.
L’altro
grande problema della nostra sanità è quello che riguarda l’equità. Un tema che
secondo Spandonaro si può declinare in due modi: una diseguaglianza tra il Nord
e il Sud del Paese e una diseguaglianza tra chi paga le tasse e chi no. Nel
primo caso sappiamo che la questione meridionale esiste ancora, benché non se
ne parli più, ed esiste anche per la salute: al Sud la speranza di vita è più
bassa che al Centro Nord. Ma probabilmente la sanità è solo la cartina da
tornasole di una diseguaglianza che investe gli ambiti economici e sociali. Nel
secondo caso, invece, la mancanza di equità si traduce nel fatto che il
finanziamento dei servizi grava solo su una piccola parte della popolazione,
ovvero quella che paga le tasse. L’“eccesso di solidarietà” così generato, a
spese solo di chi è a posto col fisco, mina il sistema.
D’altra
parte, come sostiene Fabrizio Rufo nel suo libro “Etica in laboratorio”(Donzelli
editore) negli anni del neoliberismo la salute si è trasformata in un enorme
mercato. Un mercato che, peraltro, ha ancora un alto potenziale di crescita di
cui si sono accorti i privati. La privatizzazione della sanità, sostiene
Spandonaro, in realtà c’è già: oltre il 25% della nostra spesa sanitaria è
privata, una delle quote più alte in Europa e decisamente superiore rispetto
alla media UE. Si tratta per lo più di spesa privata out of pocket, ovvero
soldi che escono direttamente dalle tasche dei cittadini e non intermediati da
polizze sanitarie. Questo genera un ulteriore problema di equità o meglio il
rischio di una esclusione dalle cure di una grossa parte dei cittadini, ovvero
tutti quelli che non posso permettersi di spendere quelle cifre. Eppure
l’inclusione è alla base del concetto di universalità delle cure.
“C’è
bisogno di governare questo fenomeno – dice Spandonaro – Ad esempio, quel 25% e
oltre di spesa privata dove va a finire? Sappiamo che oggi ci vengono offerte
polizze per poter accedere a improbabili pacchetti di analisi inutili. Ci
vorrebbe invece una maggiore autorevolezza: un servizio sanitario davvero in
grado di dire no al cittadino che richiede una prestazione che in realtà non
serve, o al medico che prescrive farmaci in modo inappropriato”.
E
qui veniamo a un altro tema scottante: la responsabilità del cittadino. L’idea
che il servizio sanitario dia tutto a tutti non solo è irrealistica oggi che le
opportunità terapeutiche sono infinite (e infatti nessuno stato la mette in
pratica), ma è un’idea anche poco educativa: “C’è una deresponsabilizzazione
delle persone che fumano due pacchetti di sigarette al giorno, non si muovono
dalla poltrona e pensano che poi lo Stato debba pagar loro le cure. Siamo il
paese più sedentario in Europa e non facciamo nulla per incentivare uno stile
di vita più sano”.
Quello
su cui c’è ancora molto da fare è il tema dell’appropriatezza: non vuol dire
che fare di più voglia sempre dire fare meglio, e il movimento choosing wisely
lo ripete ormai da tempo, ma forse ancora viene data poca risonanza ai suoi
messaggi.
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