Bruno Perini – Il manifesto
29 settembre ’18
Un terremoto finanziario annunciato. Che si è
abbattuto sulla Borsa, sui portafogli dei risparmiatori che hanno sottoscritto
mutui e in particolare sugli esili bilanci del sistema bancario italiano,
detentore assieme alle famiglie della gran parte dei Btp: la Borsa di Milano,
con maglia nera in Europa, ha toccato crolli oltre il 4% e ha chiuso a meno
3,7%, bruciando così 20 miliardi in poche ore. Le aziende pubbliche hanno perso
in un giorno 1,3 miliardi. Lo spread dopo aver sfondato zona 280, ha oscillato
attorno ai 270 punti base e ha chiuso a 267 punti. Lo spettro dei 300 punti
base ha tenuto banco per tutta la giornata ma alla fine c’è stata
un’attenuazione dei danni. «Il governo – sussurrano a piazza Affari – dovrebbe
ringraziare Mario Draghi, che forse per evitare il peggio potrebbe averci messo
per l’ultima volta la sua manina, acquistando titoli italiani».
Comunque sia è stata la perentoria decisione del
governo Lega-M5S con l’approvazione della nota di aggiornamento al Def al 2,4%
a scatenare gli appetiti della speculazione internazionale, a provocare il
panico tra gli operatori di Borsa e ad aprire un insidioso duello tra gli
investitori che ogni mese ci prestano una montagna di denaro e l’esecutivo
guidato da Conte che ha lanciato il guanto di sfida all’Europa per una manovra
da 40 miliardi, di cui malgrado il 2,4% ne mancano almeno una dozzina.
Nei giorni scorsi i fondi di investimento e la
comunità finanziaria si erano illusi che alla fine la partita la vincesse il
ministro del Tesoro. E’ per questo motivo che avevano acquistato titoli di
stato italiani tenendo a bada lo spread. Poi l’inatteso coup de theatre che ha
messo nell’angolo Giovanni Tria e ha spiazzato l’intera comunità finanziaria.
«La lezione che gli investitori hanno tratto da
questa vicenda è che le parole di Salvini e Di Maio contano di più di quelle
del ministro Tria», ha detto James Athey, senior investment manager di Aberdeen
Standard Investments secondo cui gli ultimi sviluppi hanno messo l’economista
romano in una «posizione impossibile».
I gestori dei grandi fondi non credono che la
situazione attuale sia paragonabile a quella che si creò nel 2011 con il
governo Berlusconi. «Ma in un orizzonte di lungo periodo non mi sentirei di
escludere uno scenario del genere. Saranno soprattutto le implicazioni della
legge di bilancio sulla crescita economica a determinare le strategie dei
grandi investitori esteri sul debito pubblico italiano». E ora tutti temono
l’imminente voto delle agenzie di rating. David Simner, gestore di portafoglio
obbligazionario di Fidelity International non ha dubbi: «Con un deficit al di
sopra del 2,3% Moody’s potrebbe non solo declassarci ma rivedere in negativo le
prospettive». Un ipotesi che rischia di trasformare i nostri titoli in
spazzatura. «A questo punto un declassamento è dato per scontato – dice ancora
James Athey – resta da vedere quanto sarà pesante la bocciatura delle agenzie.
Una revisione al ribasso dell’outlook potrebbe essere il fattore decisivo tale
da spingere certe categorie di fondi a liquidare la loro esposizione in Btp. Ci
sono molti fondi che per statuto possono detenere solo bond sopra una
determinata soglia di rating e che non aspetteranno la bocciatura a ’junk’ per
disfarsi dei Btp che hanno in portafoglio».
Tito Boeri, presidente dell’Inps e candidato al
licenziamento per mano del governo quando gli scadrà il mandato a febbraio, è
stato durissimo. Parlando della politica dei tagli agli sprechi annunciata da
Di Maio, ha usato sarcasmo: «C’è solo uno spreco che potremmo oggi ridurre
senza danneggiare nessuno, quello degli oneri sul nostro debito pubblico, lo
spread».
Assai critico anche Carlo Cottarelli sulle ipotesi
di crescita contenute nella manovra: «Visto come sta andando adesso l’economia
immaginare il Pil all’1,5% il prossimo anno sarebbe una previsione molto
ottimistica, in un contesto in cui l’economia europea e mondiale sta
rallentando». L’eventuale effetto espansivo della manovra «non c’è se lo spread
va su, perché vuol dire che è più costoso prendere denaro in prestito, non solo
per lo Stato ma per l’intera economia».
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