Roberto Ciccarelli – Il manifesto
27 settembre ’18
La
sentenza della Corte costituzionale ha confermato la continuità tra il Jobs Act
e il «Decreto dignità» per quanto riguarda l’indennità che spetta al lavoratore
licenziato in maniera ingiusta. L’unica differenza sono le mensilità da
risarcire: nel Jobs Act minimo 4, massimo 24; nel «decreto dignità» 6-36. Ma il
vicepremier ministro del lavoro e sviluppo Luigi Di Maio non se ne è accorto e
ha preferito attaccare il Pd, e Renzi, per dimostrare una differenza tra il
vecchio e il nuovo approccio del governo Lega-Cinque Stelle che, al momento,
non esiste.
«IL
JOBS ACT abbiamo iniziato a smantellarlo non solo noi, ma anche la Corte
costituzionale – ha detto Di Maio – Il partito che doveva difendere i
lavoratori con il Jobs act ha eliminato i loro diritti e le loro tutele». «Bene
aveva fatto il decreto Dignità ad andare nella direzione che oggi indica la
Consulta aumentando le indennità per i lavoratori licenziati ingiustamente». E
poi la promessa, già sventolata nel periodo pre-elettorale ma latitante nel
«contratto di governo»: «Sistemeremo le assurde storture» causate da quella
legge e «torneremo all’epoca pre-Jobs act, che ha tolto ai lavoratori un sacco
di diritti».
L’OCCASIONE
DI RISTABILIRE ed estendere la tutela reale nei casi di licenziamenti
illegittimi (l’articolo 18) abolito dal Pd con il Jobs Act è stata non
casualmente persa tra luglio e agosto, durante la discussione e l’approvazione
del «decreto dignità dei lavoratori e delle imprese». Il provvedimento è stato
presentato come la «Waterloo del precariato» e ha esteso i voucher, simbolo del
precariato, nel turismo e in agricoltura per tenere buona la Lega. La stessa
riduzione della durata dei contratti a termine (da 36 a 24 mesi), del numero
dei rinnovi (da 5 a 4) e il ripristino della causale dopo 12 mesi è una
manutenzione del Jobs Act che, con il «decreto Poletti» aveva liberalizzato i
contratti a termine, ma non un suo rovesciamento dato che resta nel solco della
prassi dominante: monetizzazione dei rapporti di lavoro; interpretare la forza
lavoro come una scorta di magazzino a disposizione dell’impresa. In attesa
delle motivazioni della sentenza, non è nemmeno escluso che lo stesso «Decreto
dignità» possa subire la sorte riservata al Jobs Act di Renzi, dato che non
modifica l’orientamento di fondo sulla questione specifica degli indennizzi. Un
paradosso nemmeno troppo lontano dal diventare reale se qualcuno facesse un
ricorso.
LO
STORYTELLING RIAFFERMATO ieri da Di Maio va rubricato nella categoria
orwelliana del bispensiero: la capacità di affermare una cosa e il suo
contrario, il governo del «cambiamento» è quello della continuità. Oggi non si
può parlare di una visione alternativa, mentre sussistono le diseguaglianze tra
i neo-assunti con il Jobs Act e coloro che sono stati assunti prima del 7 marzo
2015, data di entrata in vigore della renzianissima riforma. La narrazione in
atto tende a cancellare la contraddizione che, in mancanza di provvedimenti di
segno radicalmente diverso, resta intatta.
«LA
REINTEGRAZIONE al di là della modalità di calcolo dell’indennizzo è l’unico
strumento di tutela» sostiene Beatrice Brignone (Possibile). «M5S dovrebbe
ascoltarci a differenza di quanto ha fatto con il decreto dignità – sostiene
Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana/LeU) – serve ripristinare l’articolo 18».
«La sentenza ci ricorda che il Jobs Act scritto da Confindustria e approvato da
Pd è una schifezza – sostiene Maurizio Acerbo (Rifondazione Comunista) – che il
governo gialloverde non ha ancora abolito come si era impegnato a fare».
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