Andrea Colombo – Il manifesto
27 settembre ’18
L’illusione di una conclusione relativamente
facile della lunga trattativa tra i partiti di maggioranza e il ministro del
Tesoro sulle cifre della legge di bilancio svanisce alla vigilia della riunione
decisiva del consiglio dei ministri, previsto per stasera alle 18, previo
ennesimo vertice di maggioranza e confronto diretto Salvini-Di Maio. Le
possibilità di trovare una quadra in extremis non sono esaurite e il
sottosegretario leghista Siri ieri parlava di «tensioni non insormontabili».
Di certo però ieri quelle tensioni non erano
neanche un po’ sormontate e la situazione era anzi molto vicina al classico muro
contro muro, con Tria arroccato nella difesa di una manovra accettabile per
l’Europa, con il deficit intorno all’1,8%, Di Maio deciso a ottenere ben altri
fondi, portandolo al 2,4%, e una Lega che, dopo aver ammorbidito i toni negli
ultimi giorni, è a un passo dal fare fronte con i 5S, non avendo ottenuto da
Tria le concessioni previste sulla revisione della legge Fornero.
Il dissenso tra la maggioranza e un ministro
dell’Economia che si configura ormai quasi più come una controparte che come
una componente omogenea del governo, è esploso. Era nell’aria sin dal mattino
quando Tria, di fronte alla platea di Confcommercio aveva difeso a spada tratta
la sua barricata, in un discorso che suonava come un niet senza appello opposto
alle pressioni dei 5S.
«Ho giurato nell’esclusivo interesse della nazione
e non di altri», aveva scandito il ministro prima di sottolineare la necessità
di muoversi con prudenza e mantenendo i conti in ordine.
Fino a un’aperta «dichiarazione di pace» rivolta
alla Ue: «Le polemiche con l’Europa non hanno senso. Dobbiamo continuare ad
avere la fiducia di chi vuole sottoscrivere il nostro debito. Se si crea
incertezza nessuno investe e nessuno consuma. Se pensano che ci sarà un
disastro dovremo restituire i soldi investiti».
Tria era certamente al corrente della bellicosa
riunione della sera prima, dove un M5S sempre meno soddisfatto dalla piega che
stavano prendendo le cose aveva deciso di sfidare via XX settembre apertamente,
chiedendo una manovra ben più corposa di quella del Mef: «Con l’1,6-1,7% non si
va oltre una finanziaria alla Gentiloni. Ci vuole un deficit al 2,4%». Ma era
anche certamente consapevole dell’avvertimento del commissario Moscovici: «La
legge di bilancio italiana deve tenersi ben al di sotto del 2%».
Che il monito di Tria, mai così esplicito, fosse
diretto ai due vicepremier era evidente. Ma soprattutto a Di Maio, che intanto
insisteva sulla «Manovra contro la povertà», ripetendo che «se non è coraggiosa
non la votiamo», e rispondeva a muso duro a Moscovici: «Quando era ministro
dell’Economia ha abbondantemente sforato il 3%. Non venga a fare la morale a
noi». Salvini e il Carroccio, invece, sembravano molto più disposti ad
accogliere il progetto del Mef: una manovra con pochissimo di tutto, in cui il
reddito di cittadinanza è tale solo di nome e si risolve di fatto in un reddito
di inclusione potenziato e nemmeno di tanto, un miliardo aggiunto ai 2,5 già
previsti, e la Flat Tax non va oltre un contenutissimo intervento sull’Iva.
Ma se il Carroccio aveva scelto una linea soffice
non era perché Salvini si fosse convertito alla logica delle compatibilità del
ministro del Tesoro ma perché era convinto di avere già in cassaforte
l’obiettivo principale, quella revisione della Fornero che basterebbe a fare la
differenza in termini di popolarità e che, pur essendo richiesta da entrambi i
partiti di maggioranza, risulta quasi in esclusiva quota leghista.
La doccia fredda è arrivata nel pomeriggio.
Intervento sulla Fornero sì, ma non delle proprozioni vagheggiate, e
pubblicamente promesse, dal leghista: quota 100, 62 anni di età, 38 di
contributi. Impossibile: troppo onerosa. La Lega si riavvicina ai sempre più
agguerriti 5S, Salvini convoca un vertice d’urgenza, il premier si fa
mallevadore di una mediazione: asticella al 2%, forse anche un po’ sopra, ma
con fondi destinati soprattutto agli investimenti.
Alla fine il leader della Lega torna a mostrarsi
conciliante: «L’accordo c’è. Lo zero virgola in più o in meno è l’ultimo dei
problemi e nessuno farà gesti eclatanti”. Ma l’accordo, invece, non c’è. Forse
verrà trovato nella notte oppure oggi prima della riunione del governo. Forse
la discordia vedrà i due partiti coalizzati contro il ministro. Ma non è
escluso che invece a fronteggiarsi siano proprio la Lega “responsabile” e un M5S
che si sente messo alle corde.
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