Prima
del 1978 c’erano le casse mutue, oggi si torna a un sistema sanitario
“corporativo” e non universalistico attraverso il predominio delle
assicurazioni che fanno capo al welfare aziendale di dipendenti semi-paganti e
alla spartizione dei finanziamenti pubblici in Fondi regionali che aggravano le
disparità geografiche. Con la flat tax il rischio del colpo finale
Lorenzo Paglione, Sbilanciamoci
01 agosto 2018
Il Servizio Sanitario Nazionale
(SSN) nasce con la Legge 833 del 27 Dicembre 1978 in un clima politico teso, ma
fecondo di avanzamenti politici. Il SSN viene avviato al termine di un percorso
di graduale integrazione delle Casse Mutue e delle Opere Pie, fino ad allora
titolari del finanziamento e dell’erogazione delle prestazioni sanitarie in
Italia. Le Casse Mutue e delle Opere Pie rappresentavano un modello
“bismarckiano” corporativo di finanziamento ed erogazione, basato sul modello
produttivo fordista in cui la figura centrale era il cittadino-lavoratore,
tendenzialmente maschio, che contribuiva direttamente al finanziamento del
servizio tramite un prelievo dal proprio salario. Con il SSN si passa a un
modello “Beveridge” universalista, basato sulla tassazione generale e diretto a
tutta la popolazione, di cittadini e non, come recita l’articolo 32 della
Costituzione.
Fino al 1978, le protagoniste
dell’assistenza erano quindi la miriade di casse mutualistiche professionali,
ciascuna con il proprio bilancio ed il proprio pacchetto di prestazioni “mutuabili”.
I gravi limiti di quel sistema erano le disparità che determinava tra le casse
dei professionisti e quelle degli operai, e l’esclusione di tutti i soggetti
che si trovavano al di fuori del mercato del lavoro.
Con il SSN invece il protagonista
divenne il ministero della Salute che, attraverso le declinazioni territoriali
delle Unità Sanitarie Locali, cogestite con i Comuni, finanziava ed erogava
direttamente gran parte dei servizi.
Questa struttura ha retto per
poco più di un decennio, fino alle riforme dell’inizio degli anni ‘90, i D.L.
502/92 e D.L. 517/93, in cui, in un
clima politico altrettanto teso, ma di segno inverso a quello degli anni 60/70,
si decise unilateralmente e dall’alto di procedere ad una riorganizzazione in
senso aziendalistico dell’intero Servizio. Questa trasformazione avvenne
nell’ottica di un presunto miglior controllo sulla spesa da parte di enti
riorganizzati secondo l’ideologia neoliberale del new public management. Così
le Unità Sanitarie Locali, che lavoravano a stretto contatto con il territorio
di competenza, vennero trasformate in Aziende Sanitarie Locali, degli enti
dotati di “personalità giuridica pubblica, di autonomia organizzativa,
amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica”. A questo si aggiunse
la Riforma Costituzionale del 2001, che, con la modifica dell’articolo 117, ha
sancito il trasferimento delle competenze in materia di salute dallo Stato alle
Regioni.
Questa brevissima, e molto
semplificata, ricostruzione storica, è necessaria alla contestualizzazione dei
processi politici e sociali che da trent’anni investono il nostro SSN e che hanno portato alla sua sostanziale
frammentazione, con lo spezzettamento in 21 Servizi sanitari Regionali – SSR.
Tale federalismo – che, sia detto per inciso, una vittoria del sì al referendum
del 2016 non avrebbe minimamente modificato – ha portato inoltre a politiche
molto diversificate per quanto riguarda la “compartecipazione alla spesa” (i
famosi ticket), ma soprattutto ha comportato enormi differenze regionali
rispetto ai tempi di attesa. Non analizzeremo in questa sede il ruolo che
queste due componenti hanno nell’indirizzare la domanda di salute verso il
privato, ma sappiamo tutti quanto costi e quanto tempo ci voglia per effettuare
dei semplici esami strumentali in una struttura pubblica o in un centro
privato.
La
spesa sanitaria
Il GIMBE – Gruppo Italiano per la
Medicina Basata sulle Evidenze – fondazione privata molto attiva nello studio e
nella diffusione di informazioni relative al funzionamento del Servizio
Sanitario ha curato il III Rapporto GIMBE 2018, secondo il quale, in Italia,
nel 2016 la spesa sanitaria totale è stata di 157,6 miliardi di euro. Di
questi, poco più di 112 miliardi hanno carattere di spesa pubblica e quasi 45,5
miliardi di spesa privata.
All’interno di un Servizio basato
sulla tassazione generale, avere quasi un terzo della spesa che deriva da fonti
private mette chiaramente in luce, a fronte di crescenti bisogni di salute,
l’incapacità del sistema pubblico di assicurare l’intero servizio per la salute
a chi risiede in Italia.
Ciò mette anche in serio pericolo
l’equità del Servizio stesso, perché lega in larga parte la disponibilità di
cure ed assistenza alle capacità economiche delle persone, minando alla base
l’esigibilità di un diritto garantito dalla Costituzione.
Il
dualismo della spesa privata, diretta e intermediata
Tornando ad analizzare queste
voci, possiamo dividere la spesa privata in spesa diretta – letteralmente, “di
tasca propria” – consistente in contributi monetari direttamente versati da chi
fruisce del servizio, e “spesa intermediata”, corrispondente a contributi
monetari che transitano attraverso soggetti, pubblici o privati.
Dei 45 miliardi di spesa privata,
quindi, la quasi totalità (l’87,7%), è costituita da spesa out-of-pocket, che,
a sua volta, si ripartisce in poco più di 5 miliardi per i servizi ospedalieri,
15,5 miliardi ai servizi ambulatoriali, 13 miliardi per i farmaci.
La “spesa intermediata”, che si
aggira attorno al 12% del totale della spesa privata (5,6 miliardi di euro
circa, nel 2016), è oggi al centro di un acceso dibattito. L’intermediario – il
c.d.“terzo pagante” – può essere un Fondo Sanitario (“secondo pilastro”, che
può essere sia pubblico che privato) o un’assicurazione (“terzo pilastro”).
Chiaramente, in quest’ultimo caso
si tratta quasi sempre di polizze individuali, capaci di attrarre una fascia
della popolazione che può sostenere gli alti costi necessari. Le assicurazioni
infatti hanno costi elevati perché, oltre all’assistenza e al sistema di
gestione e di controllo, devono garantire anche un margine di profitto. Per
ora, comunque, il mercato assicurativo, complice una crisi oramai decennale,
resta piuttosto ristretto: nel 2016 la quota di polizze assicurative era circa
il 10% della spesa privata intermediata, pari a quasi 600 milioni di euro.
C’è da aggiungere che, mentre nel
pubblico i costi di amministrazione sono circa il 15% del totale, nel sistema
assicurativo si aggirano sul 25-27%, a cui si aggiunge una percentuale
riservata per il “fondo di riserva” – fondo obbligatorio che le assicurazioni
devono avere – facendo in modo che solo circa il 50% della spesa alla fine si
traduca in servizi.
All’interno della spesa
intermediata, il settore più florido è quello dei Fondi Sanitari. Secondo la
normativa vigente (d.lgs n. 229 del 1999 l’articolo 9, che modifica l’articolo
9 del d. lgs. n. 502 del 1992, ma soprattutto il DM del 31 marzo 2008 anche
conosciuto come decreto “Turco”), i Fondi Sanitari, eredi delle società di
mutuo soccorso, enti non profit ma con un taglio decisamente corporativo,
possono erogare prestazioni integrative o sostitutive dei Servizi LEA.
I LEA sono i Livelli Essenziali
di Assistenza, ossia l’insieme di servizi e prestazioni che ogni Regione
dovrebbe erogare con la propria quota di Fondo Sanitario Nazionale (FSN), il
finanziamento pubblico basato sulla tassazione generale.
La normativa, almeno nelle
intenzioni dichiarate, ambiva a coprire, con un residuo del sistema antecedente
al SSN, tutte quelle prestazioni rimaste sempre al di fuori dei LEA, in
particolare rispetto all’assistenza odontoiatrica. Ulteriori modifiche e
rimaneggiamenti della norma hanno portato però i fondi a divenire da
integrativi a sostitutivi del SSN, così permettendo a dei soggetti privati di
fornire prestazioni e servizi già compresi all’interno dei LEA e formalmente già
erogati dal Servizio Sanitario.
Pertanto, la distinzione tra
fondi integrativi e sostitutivi è ormai saltata de facto, e ciascun fondo –
secondo l’ultimo decreto in materia Sacconi, 2009
(http://www.gazzettaufficiale.it) che modifica il precedente decreto del 2008 –
può erogare prestazioni in sostituzione del SSN fino all’80% delle risorse
impegnate dai fondi stessi. Ad oggi, quindi, i fondi – integrativi o
sostitutivi che siano – coprono il 68% della spesa intermediata, mobilitando
più di 4 miliardi di euro e coprendo, tra iscritti e familiari a carico, più di
10 milioni di persone.
Questo “secondo pilastro” dei
Fondi Sanitari presenta però due enormi limiti. In primo luogo, la sua natura
corporativa di welfare “aziendale”, essendo legata al lavoro – e, in
particolare, al lavoro dipendente – per la natura del tessuto produttivo
italiano rende i Fondi iniqui a livello geografico, con un notevole gradiente
tra Nord e Sud del Paese.
In secondo luogo, il Fondo
Sanitario, garantendo un accesso diretto al servizio senza la mediazione del
medico di Medicina generale (MMG), che funge da cosiddetto gatekeeper,
stabilendo se e come entrare nei percorsi assistenziali del SSN, va a sostituirsi
alle prestazioni pubbliche e può portare, specie nel lungo periodo, ad un serio
aumento dei costi senza necessariamente un ritorno in termini di salute.
Nell’attuale crisi del lavoro,
questo welfare aziendale affascina sempre di più anche componenti storicamente
conflittuali e universaliste come i metalmeccanici, che, nell’ultimo contratto
nazionale, hanno preferito l’iscrizione ad un fondo sanitario
(http://www.fondometasalute.it/) ad un aumento del salario, innescando una
dinamica di involuzione corporativa.
Il
diritto alla Salute sotto attacco
Complessivamente, infine, la
spesa sanitaria pro capite resta abbastanza contenuta: nel 2016, in Italia la
spesa sanitaria pro capite è di 2.470 euro, contro una media Ocse di 2.821. Ciò
ha evidenti ripercussioni sull’accessibilità, e quindi sull’equità, del
Servizio. Infatti, secondo i dati più affidabili in circolazione, nel 2014 le
persone – prevalentemente localizzate nel Mezzogiorno – che hanno rinunciato
alle cure sono circa 5 milioni di persone. E ovviamente ciò avviene soprattutto
per motivi economici.
Intanto, a fronte dell’esplosione
della spesa privata, le risorse pubbliche si riducono essendo il Fondo
Sanitario Nazionale in progressivo definanziamento.
In questa dinamica, il ruolo
giocato dai “terzi paganti” (assicurazioni e mutue) si va ampliando, poiché
queste sostengono di essere più efficienti dei singoli privati ai quali offrono
di sostituirli intermediando l’intera spesa privata.
Così, a causa dei notevoli
differenziali di costo e qualità tra pubblico e privato, l’opting-out– ossia lo
sganciamento degli strati più agiati dai servizi pubblici verso quelli privati
– mina il meccanismo solidaristico del welfare state universalistico. La sua
realizzazione non è più solo una minaccia ma una realtà sempre più minacciosa,
che si nutre di vere e proprie controriforme come la flat tax.
In
conclusione, come sostiene il Rapporto della XII Commissione
del Senato – Igiene e Sanità, riprendendo le conclusioni del rapporto del 2003
della Commissione sul futuro dell’assistenza sanitaria in Canada, “il sistema è
tanto sostenibile quanto noi vogliamo che lo sia”. Le scelte relative
all’assicurazione della salute pubblica sono scelte politiche e non traiettorie
ineluttabili. Infatti, in questo contesto, la grande assente, ancora una volta,
è la salute della popolazione, sempre meno garantita come un diritto e sempre
più mercificata. A questa logica corrisponde l’aziendalizzazione del pubblico
che risponde alle esigenze di efficienza cercando di erogare il servizio con il
minor impegno di risorse possibile. In questa corsa al massimo ribasso, il
privato intanto, minimizzando i costi, troppo spesso mostra avere regole,
standard e controlli di qualità inferiori, con l’effetto di divenire sempre più
competitivo in termini di prezzo offerto al cittadino ma sempre meno sicuro in
termini di salute.
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