Il
livello e tipo di offerta di servizi, i trasferimenti alle famiglie, le
politiche per la casa, oltre che le pensioni o le indennità di disoccupazione,
a uno sguardo di genere rivelano gli assunti dati per scontati rispetto alla
divisione del lavoro
Chiara Saraceno, Rassegna
sindacale
02 Agosto 2018
Le analisi di genere hanno
evidenziato come i sistemi di welfare non siano neutri, né neutrali, rispetto
ai modelli di organizzazione famigliare e di rapporti di potere tra uomini e
donne, dentro e fuori la famiglia, che sostengono e talvolta promuovono. Si
può, anzi, sostenere che le forme di regolazione dei rapporti di genere (gender
arrangements) sono una dimensione specifica dei sistemi di welfare, a sua volta
sostenuta da modelli culturali circa ciò che è appropriato in base al genere
(Pfau-Effinger, 2004).
Il livello e tipo di offerta di
servizi, i trasferimenti alle famiglie, i sistemi fiscali, le politiche per la
casa, oltre che le pensioni o le indennità di disoccupazione, così come le
forme di regolazione del mercato del lavoro e dell’orario di lavoro, a uno
sguardo di genere escono da una loro presunta neutralità e rivelano gli assunti
dati per scontati rispetto alla divisione del lavoro tra uomini e donne. Senza
contare il lavoro familiare e di cura non pagato come lavoro necessario, che
non solo va meglio redistribuito tra uomini e donne e tra famiglia e società,
ma che va anche riconosciuto nel suo valore e per il quale occorre garantire
tempo, alle donne e agli uomini.
Una visione della
(dis)uguaglianza di genere basata non solo sulla partecipazione al lavoro
remunerato, ma anche al lavoro di cura, complica la dicotomia
familizzazione-defamilizzazione e il modo in cui si possono valutare le
politiche in questo campo. In primo luogo, anche nei contesti più – o viceversa
meno – defamilizzati la cura, salvo eccezioni considerate per lo più
patologiche o estreme, è sempre prestata da un mix di persone e istituzioni, in
parte a pagamento in parte no. In secondo luogo, accanto alla defamilizzazione
e politiche pubbliche possono (nella forma dei congedi) non solo garantire
“tempo per la cura”, ma, se esplicitamente disegnate a questo scopo anche
favorire un riequilibrio di genere nelle responsabilità di cura (Saraceno e
Keck, 2013).
Le analisi delle studiose
femministe hanno trovato un terreno di ascolto favorevole tra coloro che a
livello internazionale si interrogano sui cosiddetti nuovi rischi sociali,
scaturenti dalla combinazione invecchiamento della popolazione, indebolimento
delle due istituzioni che tradizionalmente avevano costituito le basi del
welfare tradizionale – l’istituzione del matrimonio come legame per tutta la
vita e il pieno e stabile impiego (maschile) – e trasformazioni del lavoro
dovute non solo alla globalizzazione, ma allo sviluppo dell’economia della
conoscenza. Incoraggiare e sostenere con politiche di conciliazione
famiglia-lavoro l’occupazione femminile in nome dell’uguaglianza di genere sembra
una sorta di uovo di colombo: consente di allargare la base impositiva,
allentare l’effetto dell’invecchiamento sulla disponibilità di forza lavoro,
compensare i rischi dell’indebolimento del matrimonio e valorizzare tutto il
capitale umano disponibile.
Pur allontanandosi radicalmente
dal modello male-breadwinner, questo ri-orientamento del modello culturale,
tuttavia, non si discosta dall’altro fondamento del welfare tradizionale,
ovvero dalla partecipazione al mercato del lavoro come fonte dei diritti sociali
e della cittadinanza sociale stessa. Anzi, per molti versi l’accentua,
proponendo il modello dell’adulto-lavoratore (per il mercato) come valido per
tutti, uomini e donne. La questione del lavoro di cura necessaria viene
formulata come “impedimento”, “costrizione” (per le donne) che va il più
possibile contenuta tramite servizi, più che riconosciuta sia per le donne sia
per gli uomini
La stessa importante, ancorché
riduttiva, questione dell’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro è stata
ridefinita in termini di partecipazione e di conciliazione famiglia-lavoro, non
di uguaglianza di opportunità nel mercato del la lavoro, né tantomeno di
riorganizzazione del lavoro (remunerato) per rendere quella conciliazione non
esclusivamente unidirezionale. Ciò è evidente nei due approcci teorici alla
riforma del welfare che hanno trovato maggiormente eco anche nei documenti
della stessa Unione europea: l’approccio dei mercati del lavoro transizionali e
quello dell’investimento sociale.
Il primo, che in parte è
confluito nel modello di flexicurity, propone di integrare in un nuovo sistema
di assicurazione sociale sia i nuovi “rischi sociali” di un mercato del lavoro
flessibile, sia quelli derivanti da necessità del corso di vita individuale e
famigliare dei lavoratori e delle lavoratrici effettivi o potenziali – in
particolare, necessità di tornare in formazione, nascita e presenza di bambini
piccoli, famigliari non autosufficienti (Schmid, 2006). Un nuovo sistema di
sicurezza sociale dovrebbe sostenere sia le transizioni dentro e fuori il
mercato del lavoro dettate/imposte dal mercato stesso, sia quelle dettate dalle
esigenze individuali e famigliari. Questo sistema aiuterebbe anche ad
affrontare con più agio quelli che i proponenti di questo approccio chiamano i
“dilemmi di genere”, in realtà concepiti come solo delle donne, tipici di
“carriere lavorative compresse”. Anche se ciò non basterebbe a proteggere le
donne dai costi in termini economici e di carriera di temporanee uscite dal
mercato del lavoro.
Per l’approccio dell’investimento
sociale le pari opportunità di genere sono strumentali all’obiettivo di un
utilizzo più adeguato del capitale umano più che un fine in sé. Al centro
dell’approccio dell’investimento sociale, inoltre, non ci sono le donne, né la
parità di genere, bensì le giovani generazioni, a partire dai bambini e le pari
opportunità tra bambini di diversa estrazione sociale. Per questo l’educazione
infantile precoce è un cruciale strumento di riduzione delle disuguaglianze
socialmente strutturate di partenza (Esping Andersen, 2002). Accanto alla
sottovalutazione del lavoro di cura, ciò che appare problematico in questo
approccio è l’esplicito riferimento alla disuguaglianza tra donne come risorsa
per contenere il costo dei servizi.
La questione della
redistribuzione del lavoro di cura tra uomini e donne rimane aperta anche nella
proposta del basic income (Van Parijs e Vanderborght, 2017), che pure ha il
merito di riconoscere il valore di attività extra-mercato e la necessità di
offrire risorse per una libertà di scelta effettiva.
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