Miriam Rossi– Unimondo
03 Settembre 201
03 Settembre 201
Udite udite! Gli Stati Uniti si
ritirano dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite! Notizia di metà
giugno che ha animato la stampa per un paio di giorni per poi semplicemente
inserirsi nella lunga lista di iniziative ostili alla multilateralità di cui la
presidenza americana Trump si sta fregiando. Che la ragione sia davvero la
prevenzione-avversione dell’organo onusiano verso lo Stato di Israele, colpito
in ogni sessione da dure critiche, come ha asserito la diplomazia statunitense?
Tutto è possibile ma le risoluzioni di condanna a Israele non sono certo una
novità: ci sono dai primi anni di avvio dell’ONU, ossia da quando è stata
creato lo Stato sionista, e da quando il Consiglio per i diritti umani si
chiamava Commissione per i diritti umani (ossia fino al 2006). Niente di nuovo
quindi, neanche da parte dei “tifosi” dell’una e dell’altra parte del conflitto
israelo-palestinese che pochi discorsi investono nel merito della controversia
prediligendo invece slogan e messaggi spot.
C’è stato chi ha messo in
relazione la decisione di Trump a una reazione al continuo declinare degli USA
nelle valutazioni sui diritti umani, a causa delle politiche di separazione
familiare dei migranti al confine col Messico o delle gravi violazioni commesse
nella Guerra al terrorismo in primis con il trattamento dei prigionieri di cui
il carcere di Guantanamo è la struttura più nota. Ma non sono solo questi
elementi, più raccontati dai media: il rapporto presentato a metà dello scorso
dicembre dal prof. Philip Alston, Speciale Rapporteur ONU sulla povertà estrema
e sui diritti umani, ha documentato la riduzione del godimento di diritti
economici e sociali nel Paese a stelle e strisce a dispetto della considerevole
ricchezza del Paese. In sostanza il Consiglio per i diritti umani, che ha preso
in esame il rapporto di Alston, ha mosso critiche all’amministrazione Trump per
la consapevole esasperazione delle condizioni di vita della fascia più povera
della società americana; dati sui livelli di ineguaglianza alla mano, infatti,
negli Stati Uniti questi risultano i più alti del mondo occidentale. La
risposta del presidente Trump non si è fatta attendere. Né ci si poteva
aspettare qualcosa di differente da una generale delegittimazione delle
istituzioni internazionali, con uno sberleffo per quello che è una analisi
della diffusione della povertà in uno dei Paesi più ricchi al mondo. In una
politica fatta di proclami e di botta e risposta gettati in pasto ai cinguettii
di twitter non c’è spazio per affrontare il tema della polarizzazione delle
ricchezze che, tra l’altro, è una questione che è stata riconosciuta dallo
stesso Forum Economico Mondiale di Davos, l’incontro clou del sistema economico
di mercato attuale, non da un covo di antagonisti al sistema.
Ecco che allora le parole della
delegata statunitense all’ONU Nikky Haley in occasione del ritiro dal Consiglio
per i diritti umani vanno ricondotte a questa dialettica vuota già in più
occasioni cavalcata. “Voglio chiarire che questo passo non è un ritiro dal
nostro impegno sul fronte dei diritti umani. Assumiamo questa iniziativa perché
il nostro impegno su questo fronte non ci consente di continuare a far parte di
un’organizzazione ipocrita ed egoista che deride i diritti umani”. Perché non
rispondere nel merito delle critiche sollevate? Perché accusare di
politicizzazione bieca un organismo per poi assumere proprio un tale
atteggiamento in funzione antagonista?
La risposta non può che essere
espresso in un termine: schizofrenica. Non c’è altro aggettivo per definire la
politica dettata oggi dalla maggior parte delle cancellerie nazionali. Che si
tratti di occupazione, diritti civili, produzione e commercio, accordi e
migrazioni, le risposte sono formulate con effetti nel breve termine e percorse
fin tanto che ricevano un facile consenso del cittadino/pubblico. Se così non
è, si fa un passo indietro suffragati da altri dati in quel mare indistinto di
fonti per i più dai quali attingere o, più banalmente, non si dà seguito ai
grandi proclami effettuati in pompa magna e, di fatto, le “non-azioni” passano
in sordina. Non si tratta di una tendenza tutta statunitense, tutt’altro.
Se quindi Trump si congratula con
il neo-presidente messicano Andres Manuel Lopez Obrador twittando “Non vedo
l’ora di lavorare con lui. C’è molto da fare che avvantaggerà sia gli Stati
Uniti che il Messico!”, non dubitiamo che anche Obrador farà lo stesso. In
effetti, dalla costruzione di un muro anti-migrantilungo il confine alla
rinegoziazione dell’accordo commerciale di libero scambio (NAFTA), sono molte
le questioni aperte tra i due Paesi nordamericani ed entrambi i presidenti sono
desiderosi di strappare accordi più vantaggiosi per il proprio, come
ampliamente annunciato ai media. Chi la spunterà?
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