Roberto Ciccarelli
Il manifesto
La strada è stata indicata dal
ministro dell’Economia Giovanni Tria a cavallo dei due vertici di governo e
maggioranza che si sono tenuti il 4 e 9 agosto scorsi. In vista della manovra
si tratterà con la Commissione Ue, e nella maggioranza giallo-verde, per
indicare il rapporto deficit-Pil tra l’1,6 e l’1,8% nel 2019, un punto in più
rispetto a quanto indicato nel Def «tecnico» consegnato dall’esecutivo
Gentiloni (0,8%). È una manciata di decimali in più, rispetto a quello che il
ministero dell’economia ha preventivato (1,5%). Su questa differenza si gioca
la manovra, non sullo sforamento del tetto del 3% come a turno hanno detto
Salvini, Di Maio, Giorgetti.
È un gioco delle parti con il
premier Conte, il ministro dell’Economia Tria e il Commissario Ue agli affari
economici Moscovici. «Un disavanzo superiore al 3% del Pil provocherebbe
difficoltà che non voglio neppure immaginare»ha detto Moscovici che accorda la
sua fiducia a Tria il quale non intende superare l’1,5-1,8%. Non sulla roulette
della campagna elettorale per le elezioni europee del 2019. Da una parte e
dall’altra non bisogna far sembrare scontato l’accordo nella tenzone tra
«austeri» e «populisti».
La strada è quella tracciata da
Tria l’8 agosto in un’intervista al Sole 24 ore. Lo scostamento all’1,6-1,8%
sarà giustificato con l’arretramento della crescita: l’Italia è in coda
all’Eurozona, 1,2%. Poi arriverà il Def, forse anticipato per diluire
l’attenzione dei tribunali delle agenzie dei rating e mandare segnali di fumo
alla Commissione Ue in vista dell’autunno. Sono al momento in ballo 22-26
miliardi necessari per bloccare l’aument per l’Iva (12,4 miliardi), per la
spesa sggiuntiva per interessi (4 miliardi), per l’aumento del deficit causato
dalla minore crescita (2,5 miliardi), spese obbligatorie (3,5 e più).
Tria non ha escluso il ritorno
delle «privatizzazioni che si sono fermate per problemi di capitalizzazione,
oggi superati». Ipotesi politicamente distante dal dibattito sulla
«nazionalizzazione», seguìto al crollo del ponte Morandi a Genova. Confermata
l’immancabile «spending review» dei ministeri, esentati scuola, sanità e
ricerca. E la misura «una tantum» della «pace fiscale», leggi «condono».
Capitolo risorse per finanziare i
cavalli di battaglia della «Flat tax» e del «reddito di cittadinanza». C’è chi
vuole tutto e subito (Di Maio) e chi frena (il metronomo Tria). In attesa dello
scontro vero (ammesso che ci sia), si dice che sono «riforme di legislatura» e
che nel 2019 «saranno avviate». La «Flat Tax» sarà per il momento un aumento
delle soglie per il regime forfettario delle partite Iva.
Per il sedicente «reddito di
cittadinanza» si prevede il modello inglese dello «universal credit», misura
che accorperà il «ReI» e la Naspi, e altri ammortizzatori, in una misura unica.
Sul tavolo ci sono anche i 2 miliardi per i nuovi centri per l’impiego. Il
governo cerca di convincere l’Ue a usare le risorse del Fondo sociale europeo.
Per arrivare ai 17 miliardi preventivati è la strada è lunga. Di Maio userà le
tre carte in mano al governo, sostenendo che la vetta della montagna non è
troppo lontana.
La caccia alle coperture è sempre
aperta. Potrebbero arrivare da un riordino delle «tax expenditures» che
comprende la trasformazione (non l’eliminazione) del bonus da 80 euro di Renzi
da «spesa» a «riduzione di tasse» (9 miliardi). Tra le ipotesi c’è la riduzione
degli scaglioni Irpef da 5 a 3: 28 mila con aliquota fra il 15 e il 25%; tra 28
e 75 mila (aliquota tra il 26 e il 35%); dai 75 mila in su. Annunciato un
ampliamento della no tax area o nuovi quozienti familiari. Risorse potrebbero
arrivare dalla trattativa sul rompicapo degli ultimi anni: la riduzione del
deficit strutturale dello 0,6% del Pil. Riduzione scontata per il 2018, ma che
Moscovici ha rimesso sul tavolo. Tria, come il suo predecessore Padoan, chiede
di evitare la correzione perché «sarebbe troppo pro-ciclica» e rallenterebbe
ancora di più l’economia. Sarà l’oggetto di discussione con la Commissione,
insieme allo scorporo delle spese per investimenti dal «patto di stabilità».
Raschiato il fondo del barile il
cammino prosegue sul «sentiero stretto» già indicato da Padoan. Da qui si
ripartirà nei vertici previsti dalla prossima settimana. È doppio il registro
del governo: rigorismo e elettoralismo. Toccherà riconoscerlo per non finire
imprigionati nella carta moschicida.
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