Marci Damilano – L’Espresso
17 Settembre 2018
Matteo Salvini appare ai suoi
sostenitori come un uomo tutto d’un pezzo, l’uomo che ha una sola parola, il
politico che realizza quello che dice. Così ce lo tramandano i suoi cantori
mediatici, non senza premettere in alcuni casi di non essere pienamente d’accordo
con lui, però. Però gli sbarchi sono crollati, le città sono più sicure, il
crimine trema e i cittadini possono passeggiare sereni per le strade pulite: va
tutto bene ora, no? Forse arriveranno a scriverlo nelle prossime settimane gli
anti-casta innamorati del nuovo capo della casta, il solito spione e falsario
con di nuovo in tasca il tesserino dell’Ordine dei giornalisti che attacca la
sinistra invidiosa e si prostra di fronte al nuovo Capo.
Così ama apparire il Capitano,
quando parla dal pulpito di facebook, quando attacca i magistrati e appende
alla parete del Viminale l’avviso di garanzia dei magistrati siciliani per il
blocco della nave Diciotti, o nella rapida comparsata alla mostra del Cinema di
Venezia, accolto con un misto di stupore e di deferenza.
C’è un altro Salvini, meno
conosciuto, meno noto al pubblico di seguaci e detrattori. Un politico di
professione, scafato come può esserlo uno che si è iscritto alla Lega Nord a 17
anni, è entrato nel consiglio comunale di Milano nel 1993 e ne è uscito
vent’anni dopo, non ha mai fatto neppure l’assessore, prima di diventare
ministro dell’Interno e vice-presidente del Consiglio, tre mesi fa.
Un politico puro, cresciuto negli
anni della fine delle appartenenze politiche, che condivide con i coetanei
formazione culturale, modalità di approccio, finalità della politica. Gusto
tattico, netta separazione di amici e avversari, indifferenza ai contenuti. Era
comunista padano e frequentava il Leoncavallo, era un secessionista padano e
voleva cacciare via il «prefetto italiano» da Milano, così anti-patriottico da
rifiutarsi di stringere la mano al presidente della Repubblica Carlo Azeglio
Ciampi, sognava la divisione del Nord dal Sud e un pomeriggio di febbraio, nel
2015, senza una parola di autocritica, ce lo siamo ritrovati su un palco in
piazza del Popolo a Roma a invocare la difesa della sovranità e le radici della
Nazione insieme ai gerarchi di Casa Pound.
Il Capitano è in realtà, al pari
di molti altri politici italiani, un Camaleonte. Uno che fa spesso il contrario
di quello che dice. Uno che ha una parola diversa per ogni pubblico: al suo
popolo su facebook si presenta come estremista, a Cernobbio o nel salotto di
Bruno Vespa si traveste da moderato. Uno che passa dal verde padano al blu
nazionale. Di trasformazione in trasformazione, Salvini ha portato il suo
partito alla guida del governo, all’egemonia culturale del Paese sulla
questione migranti (nei sondaggi il consenso per la sua politica è superiore al
65 per cento, più di quanti apprezzano l’attuale maggioranza), a un consenso
che nelle rilevazioni virtuali è stabilmente sopra il 30 per cento. Finita
l’estate, Salvini è atteso al cambio della muta, al cambio pelle. Un fenomeno
che raccontiamo questa settimana nelle pagine dell'Espresso in edicola da
doemnica 16 settembre.
La procura di Genova a caccia dei
soldi delle truffa ai danni dello Stato. Ipotesi di reato è il riciclaggio. Una
parte del denaro sarebbe finita nel Granducato e poi fatta rientrare in Italia.
E domenica in edicola tutti i trucchi usati dal Carroccio per sparpagliare il
tesoro padano
Giovanni Tizian e Stefano
Vergine, i reporter dell’Espresso che da tempo seguono le tracce dei soldi
della Lega, scovano i rivoli, le associazioni, le fondazioni che rappresentano
il sistema culturale, organizzativo e di finanziamento della nuova Lega, quella
che ha smesso il simbolo antico di Lega Nord-Indipendenza e si è rifugiata nel nuovo-vecchio
brand Lega-Salvini premier. Un cambio dettato non solo dal marketing, come si è
capito dopo le sentenze della Cassazione e del tribunale del riesame di Genova,
ma da esigenze di sopravvivenza. Susanna Turco segue la metamorfosi politica
della Lega nei territori un tempo sconosciuti, le regioni del Meridione. Qui la
trasformazione si fa carne e sangue: cambiano le insegne, spuntano le sezioni,
seguendo il percorso esattamente opposto alla Lega delle origini.
Nei primi anni Ottanta, quando lo
scapestrato Umberto Bossi batteva le cittadine lombarde, ogni bandierina
piantata dal Carroccio corrispondeva a un’esigenza sociale, un pezzo di
territorio che entrava in rivolta aperta contro lo Stato. Era questo il seme leghista
gettato nel terreno: l’autonomia dei cittadini dallo Stato predone,
l’indipendenza fiscale, la società contro la politica. L’espansione della Lega
salvinista al Sud segue il percorso opposto: è calata dall’alto, è la richiesta
di protezione nei confronti della politica e di un nuovo potente, è lo Stato
che si fa partito e occupa la società perché Salvini oggi rappresenta lo Stato
come ministro dell’Interno e uomo forte del governo.
L’ultimo cambio di pelle sta
avvenendo a Bruxelles, nel cuore del potere europeo. L’Europa così come
l’abbiamo conosciuta nella costruzione politica dell’ultimo sessantennio è
finita. Al suo posto sta già prendendo forma l’Europa dei sovranisti. Il voto
di mercoledì 12 settembre del Parlamento Ue favorevole alla mozione di condanna
contro il premier ungherese Viktor Orban passerà forse alla storia come
l’ultimo anno dell’antico europeismo. Si spacca il Ppe, la formazione dei
post-democristiani europei di cui Orban fa parte, nella libertà di voto con cui
si prova a nascondere il dilemma mortale: resistere alla carica degli Orban e
dei Salvini oppure assecondarla sperando di assorbirli, come suggerisce di fare
il bavarese Manfred Weber, candidato alla presidenza della Commissione Ue che
sarà nominata nel 2019, dopo le decisive elezioni europee? È lo stesso dilemma
che interroga Salvini in Italia, ma a parti invertite.
Cambiare pelle fino a portare la Lega nel Ppe, a
democristianizzare la Lega per conquistare il cuore del moderatismo europeo,
che avrebbe come ricaduta in Italia il partito unico del centro-destra con quel
che resta dei berlusconiani? Oppure spingere per un fronte sovranista, la Lega
delle leghe, l’internazionale populista sognata dal trumpista Steve Bannon?
In quel trenta per cento virtuale della Lega c’è già la
risposta. Per lo storico Giovanni Orsina la Lega non è il partito di destra, ma
il nuovo Centro della politica italiana. E può essere che sia vero, vedendo gli
applausi di Cernobbio, della Confindustria, di alcuni imprenditori, la fila
degli aspiranti boiardi di Stato che vanno a raccomandarsi da Salvini,
sbeffeggiati dal nuovo padrone che se la gode («Un anno fa mi davate sottobanco
i biglietti massonici, ora invece...»), il conformismo sempre più asfissiante
sui giornali e in tv.
Tutti in omaggio dell’intelligenza politica del nuovo leader,
della sua capacità di guida, della sua - pensate - moderazione. Ma se è così,
non è Salvini ad aver cambiato pelle, ma un pezzo di Paese. Oppure no, è
l’Italia di sempre, dove i poteri forti sono fragili. Per opportunismo, paura,
viltà
Nessun commento:
Posta un commento