Sofia Nardacchione– Liberainformazione
16 Settembre 2018
E’ una mafia che arriva da
lontano, nel tempo e nello spazio, quella che è protagonista del processo
Aemilia. E’ una mafia che è arrivata in Emilia Romagna negli anni Ottanta e che
colpisce vicino, nel tempo, nello spazio e nelle relazioni. E il processo che
l’ha svelata è un processo che ha messo fine a quelle distanze che in troppi
tentavano di mettere tra loro e quella associazione criminale che “no, da noi
non c’è”.
Sono passati due anni e mezzo
dall’inizio del rito ordinario del Processo Aemilia, il maxiprocesso alla ‘ndrangheta
emiliana. Nel frattempo sono arrivate le sentenze di 1° e 2° grado dei riti
abbreviati – la Cassazione si pronuncerà il 24 ottobre – e la sentenza di 1°
grado dei riti abbreviati di Aemilia Bis, si è aperta l’inchiesta Aemilia Ter,
ci sono state le operazioni Aemilia 1992 e Reticolo. Diramazioni che si
aggiungono agli altri due processi paralleli che hanno preso il via insieme ad
Aemilia dopo il 28 gennaio 2015: Pesci a Mantova e Kyterion a Crotone.
Il primo grado del rito
ordinario, che a marzo di quest’anno si è ulteriormente sdoppiato con
l’aggiunta di un abbreviato, si concluderà a fine ottobre, quando è prevista la
sentenza. Anzi, le sentenze: saranno pronunciate quelle di questi due filoni
che negli ultimi sette mesi sono proseguiti parallelamente.
I NUMERI
Gli imputati iniziali complessivi
erano 239, poi divisi tra riti abbreviati (71), patteggiamenti (19),
proscioglimenti (2). 5 dei 6 uomini ritenuti dalla Dda – e dalle prime sentenze
– a capo della cosca di ‘ndrangheta con epicentro a Reggio Emilia, hanno scelto
il rito abbreviato: non hanno quindi voluto contestare nella fase
dibattimentale del rito ordinario l’accusa. I 5 uomini sono Nicolino Sarcone,
Alfonso Diletto, Antonio Gualtieri, Francesco Lamanna, Romolo Villirillo, tutti
condannati dai 12 ai 15 anni dalla sentenza di appello.
Sono stati rinviati a giudizio,
sono quindi processati secondo il rito ordinario, 149 imputati. Di questi, 34
sono processati, dal 13 marzo 2018, secondo il nuovo rito abbreviato.
I capi d’imputazione dell’operazione
Aemilia sono 189, ma i più inquietanti – oltre ad associazione a delinquere di
stampo mafioso, estorsioni, usure, furti, incendi, commercio di sostanze
stupefacenti – sono quelli che riguardano l’economia emiliano-romagnola: come
si legge nell’ordinanza dell’operazione, lo scopo dell’associazione era quello
di “acquisire direttamente e indirettamente la gestione e/o controllo di
attività economiche, in particolare nel settore edilizio, movimento terra,
smaltimento rifiuti, ristorazione, gestione cave, nei lavori seguenti il sisma
in Emilia del 2012; acquisire appalti pubblici e privati”.
Lo ha spiegato Enzo Ciconte,
ascoltato dai Giudici della Corte in una delle udienze: la ricchezza
dell’Emilia Romagna e del Nord ha tranquillizzato la maggior parte della
popolazione che per tanto tempo si è sentita immune da un radicamento vero e
proprio, quando è proprio quella ricchezza che ha fatto sì che le mafie si
radicassero e crescessero.
PERCHE’ IL RITO ORDINARIO SI E’
SDOPPIATO?
Nell’udienza dell’8 febbraio
scorso, il Pubblico Ministero Beatrice Ronchi ha depositato dichiarazioni e
precisazioni riguardo all’accusa di associazione mafiosa. A questo capo
d’imputazione, il più grave, se ne sono aggiunti altri che riguardano in particolare
il settore edile: riciclaggio, ricettazioni, reimpiego di denaro di provenienza
delittuosa in attività illecite. Dal carcere, inoltre, sarebbero arrivate
minacce e intimidazioni a coloro che hanno testimoniato e gli imputati
avrebbero cercato di inquinare le prove.
Questo ha portato al fatto che
per tutti gli imputati accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso,
con l’eccezione dei due collaboratori di giustizia Antonio Valerio e Salvatore
Muto, il termine dei fatti contestati all’interno del processo non si ferma al
28 gennaio 2015 – giorno in cui si è svolta l’operazione Aemilia – ma arriva
all’8 febbraio 2018: l’attività delittuosa di questi imputati non si sarebbe,
quindi, mai fermata.
La modifica dei capi d’accusa
riguarda 34 imputati per i quali viene, appunto, considerato un arco temporale
di reato più lungo. Come ha scritto il giornalista Paolo Bonacini, “la
procedura penale riserva loro il diritto, in caso di contestazione di “fatti
diversi”, di poter accedere appunto al rito abbreviato”. Tra queste 34 persone
ci sono i più importanti imputati del processo: Gianluigi Sarcone, Sergio
Bolognino, Salvatore Muto, Eugenio Sergio, Giuseppe e Palmo Vertinelli,
Pasquale Riillo, Giuseppe Iaquinta, e Michele Bolognino, il sesto uomo accusato
di essere a capo della ‘ndrangheta emiliana.
La strategia criminale è stata
definita dall’accusa, “un inganno, una strategia della cosca che cerca di far
passare sotto le spoglie del cutrese lavoratore in Emilia per qualcosa di
diversa, che altro non è che ‘ndrangheta. Strategia utilizzata per espandersi e
per difendersi dopo l’operazione Aemilia”.
“LA MAFIA SILENTE NON E’ QUELLA
CHE NON INTIMIDISCE”
La strategia della consorteria
mafiosa voleva colpire anche i giornalisti che raccontavano il processo e, quindi,
davano fastidio a una associazione criminale che vorrebbe essere rappresentata
come una associazione imprenditoriale qualunque.
Tra le varie indicazioni decise
all’interno del carcere, c’erano, quindi, anche quelle per indebolire la
stampa: il 17 gennaio 2017 Michele Bolognino chiedeva, a nome di tutti gli
imputati, che il processo procedesse a porte chiuse, con l’esclusione di tutti
i giornalisti dall’aula. Secondo gli imputati, i giornalisti avrebbero fatto un
linciaggio mediatico nei loro confronti distorcendo le notizie: “ogni articolo
pubblicato – è scritto nella lettera letta da Bolognino – è sempre in chiave
accusatoria anche quando esame e contro-esame hanno dato un quadro diverso”, e
anche le scolaresche le associazioni che partecipano al processo lo fanno “solo
per ascoltare la parte accusatoria e vanno via quando c’è il contro-esame”.
Alla “inquietante richiesta” –
come viene definita da Ronchi – i giudici diedero ordine di rigetto, proprio
nel giorno in cui davanti al Tribunale era arrivata la Mehari di Giancarlo
Siani, in una delle tante tappe del “Viaggio legale”. Il giudice Caruso affermò
che “la pubblicità dell’udienza ‘a pena di nullità’ è anzitutto garanzia
fondamentale degli imputati”, ricordando poi come la libertà di informazione presente
nell’articolo 21 della Costituzione sia “pietra angolare del sistema
democratico”.
La questione emerge in due forme
diverse anche nel primo rito abbreviato: in appello è stato condannato Domenico
Mesiano, ex autista del Questore di Reggio Emilia, per concorso esterno in
associazione mafiosa e per le minacce a Sabrina Pignedoli, giornalista della
redazione reggiana del Resto del Carlino, intimata di smettere “di occuparsi
con la sua attività giornalistica dei Muto perché costoro non gradivano più che
lo facesse”.
Tra le condanne, poi, c’è anche
quella a Marco Gibertini, condannato per concorso esterno per avere dato
mediaticamente voce alle ragioni degli ‘ndranghetisti: il ‘giornalista’, che
aveva un programma indipendente su TeleReggio, inaugurò “la pratica della
fruizione del circuito della informazione da parte del crimine mafioso” oltre
ad avere indicato al clan ‘ndranghetistico “i soggetti nell’interesse dei quali
effettuare il recupero dei crediti”.
COSA C’ENTRA IAQUINTA?
Sono tanti i personaggi che si
sono messi a disposizione della cosca emiliana, molti dei quali già condannati
nell’appello dei riti abbreviati per concorso esterno in associazione mafiosa.
Insieme a questi l’associazione necessitava – come ha affermato Beatrice Ronchi
– di “imprenditori spendibili all’interno del sodalizio, per creare agganci con
la società civile”. Tra questi, secondo l’accusa, c’è anche Giuseppe Iaquinta,
spendibilissimo a livello pubblico in quanto padre del calciatore Vincenzo.
Secondo quanto emerso dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia
Antonio Valerio, Iaquinta, oltre ad avere rapporti quotidiani con gli uomini
del clan, avrebbe reperito ditte disponibili alla falsa fatturazione, nodo
centrale degli affari degli ‘ndranghetisti.
Ma le vicende di ‘ndrangheta si
estendono a tutta la famiglia: secondo il collaboratore Salvatore Muto, la
‘ndrangheta sarebbe intervenuta nel 2007 e nel 2011 per far giocare Vincenzo
Iaquinta, che non veniva più schierato dagli allenatori, mentre era nelle
squadre, rispettivamente, dell’Udinese e della Juventus. In quest’ultimo caso
probabilmente il tentativo di condizionamento non andò a buon fine: Vincenzo
Iaquinta, infatti, fu prima ceduto al Cesena e poi si ritirò.
Il calciatore, per il quale
l’accusa ha chiesto una pena di 6 anni, è accusato anche di aver permesso alla
consorteria di detenere armi: durante l’Operazione Aemilia in casa del calciatore furono trovate diverse
armi, che sarebbero state utilizzate dagli uomini di ‘ndrangheta. Una strategia
non nuova all’associazione mafiosa, che detiene armi con l’aiuto di parenti e
amici.
1712 ANNI
Il 22 maggio 2018 in aula c’era
un silenzio che non c’era probabilmente mai stato, mentre il Pubblico Ministero
Marco Mescolini leggeva le richieste di pena: l’accusa ha chiesto condanne per
un totale di 1712 anni di carcere. La richiesta era stata anticipata da una
lunga requisitoria in cui Mescolini aveva affermato che basterebbero le
dichiarazioni dei tre collaboratori di giustizia – Antonio Valerio, Salvatore
Muto, Giuseppe Giglio – per condannare gli imputati accusati di associazione a
delinquere di stampo mafioso, grazie a tantissimi dati “che fanno pendere la
bilancia verso l’impossibilità di giungere a conclusioni diverse da quelle che
noi abbiamo indicato”.
Ora sono in programma le ultime
cinque udienze – il 13, il 18 e il 20 settembre e il 9 e l’11 ottobre – con le
repliche delle parti civili, le controrepliche della difesa e le dichiarazioni
spontanee degli imputati che vorranno parlare. In ogni modo andrà, a fine
ottobre arriverà la sentenza di primo grado di un processo storico.
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