Salvatore Borsellino – Antimafia
2000
15 settembre 2018
Professor Legnini, le scrivo,
nella sua qualità di rappresentante apicale dell’Organo di autogoverno della
magistratura. Ho appreso che per domani il Csm ha convocato, per audirli e per
valutarne eventuali responsabilità, Antonino Di Matteo, Anna Maria Palma e
Carmelo Petralia, tutti magistrati che due decenni fa e più si occuparono di
indagini e processi relativi alla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992,
nella quale furono uccisi mio fratello Paolo e cinque agenti della scorta.
Nel processo Borsellino quater
definito con la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Caltanissetta – la cui
motivazione è stata depositata il 30 giugno scorso – mi sono costituito parte
civile e, al momento delle conclusioni, il mio difensore ha chiesto la condanna
di tutti gli imputati a eccezione di Vincenzo Scarantino (il falso pentito di
via D’Amelio, l’uomo che si autoaccusò, salvo poi ritrattare, della strage,
ndr): condanna del quale, non ho esitato a dire, che avrebbe costituito una
vergogna per l’Italia. In effetti la Corte di Assise di Caltanissetta ha
condannato tutti gli imputati a eccezione di Scarantino: i giudici hanno
ritenuto che egli fosse stato determinato da terzi a eseguire le calunnie, che
con certezza erano state ideate da altri, e in particolare da infedeli
rappresentanti delle istituzioni. Proprio a tale riguardo, mi sono speso in
questi anni sia quale parte civile nel processo, sia per dovere civico fuori
dal processo, a lottare perché emergessero le responsabilità di coloro che,
dall’esterno (collocati in posizioni di potere ufficiale), hanno concorso con i
mafiosi di Cosa nostra nella strage di via D’Amelio, e di coloro che (sempre
annidati nei gangli del potere) si sono resi responsabili di “uno dei più gravi
depistaggi della storia”, per riprendere le parole della Corte di Assise.
In questo ho dovuto perfino
assumere posizioni di conflitto con la procura di Caltanissetta, nella sua
composizione di questi ultimi anni. Quell’ufficio requirente, proprio nel corso
del processo Borsellino quater, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione per
gli esponenti della polizia individuati come possibili corresponsabili del
depistaggio. Lo stesso ufficio – solo dopo la conclusione del giudizio di primo
grado, e dopo che la Corte di Assise aveva trasmesso l’intero incartamento ai
pm – si è trovato costretto a esercitare l’azione penale per alcuni
appartenenti alla polizia che, sotto la guida del defunto Arnaldo La Barbera,
avrebbero realizzato la fase esecutiva del “depistaggio Scarantino”. Com’è
evidente a chiunque, tuttavia, quel criminoso depistaggio, per dispiegare
appieno tutti gli effetti, ha avuto l’avallo formale o la convalida postuma, se
non addirittura la condivisione, da parte di esponenti della magistratura, non
solo requirente ma anche giudicante.
Limitando qui l’analisi alla
magistratura requirente, ho potuto accertare chi abbia avuto un ruolo attivo
nelle indagini finalizzate alla falsa collaborazione con la giustizia da parte
di Scarantino e nella cura delle relazioni con La Barbera, al quale fu dato –
fuori da ogni ragionevolezza giuridica e pratica – il ruolo di assoluto dominus
nello svolgimento di tutte le indagini.
Le prove raccolte nel Borsellino
quater dimostrano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che i due magistrati
della procura di Caltanissetta con i quali La Barbera ebbe un rapporto
oltremodo privilegiato e preferenziale furono Giovanni Tinebra e Ilda
Boccassini. È risultato anche come Nino Di Matteo nella vicenda giudiziaria
della strage di via D’Amelio con La Barbera non ebbe alcun tipo di rapporto.
Del resto, in qualità di parte civile del processo Borsellino quater, ho
fornito alla Corte d’Assise – che ne ha disposto l’acquisizione facendolo
divenire patrimonio probatorio – un documento che ha una forza dimostrativa
enorme su chi siano stati, alla procura di Caltanissetta del tempo, i
magistrati che si assunsero pubblicamente la paternità della “collaborazione
con la giustizia” di Scarantino. Quel documento consiste
nell’audioregistrazione della conferenza-stampa svoltasi il 14 luglio 1994, e
indetta su iniziativa della procura di Caltanissetta, per riferire agli organi
di informazione sull’ordinanza di custodia cautelare che era stata eseguita il
giorno precedente, e fondata sulle “rivelazioni” di Scarantino (che aveva
iniziato a “collaborare con la giustizia” il 24 giugno 1994, subito dopo un
“risolutivo” colloquio investigativo con La Barbera).
Professor Legnini, le segnalo che
in quella conferenza-stampa – ove il Csm, che immagino abbia fatto un qualche
accertamento prima di scegliere quali magistrati (requirenti) convocare quali
possibili responsabili del “depistaggio Scarantino”, non ne abbia ancora fatta
formale acquisizione, sebbene sia online sull’archivio di Radio radicale – i
magistrati che declamarono come una vittoria della Giustizia il “pentimento” di
Scarantino furono Tinebra, Boccassini e, con pochissime parole, Francesco Paolo
Giordano. Prendo atto che il Csm, non potendo convocare il defunto Tinebra, ha
omesso di convocare Boccassini e Giordano, cioè gli unici magistrati che si
assunsero pubblicamente il merito della “collaborazione con la giustizia” di
Scarantino. Soprattutto, le segnalo che Di Matteo al momento di quella penosa
conferenza-stampa non era ancora nemmeno stato assegnato alla trattazione dei
fascicolo sulla strage di via D’Amelio. Quel che si vuole imputare a Di Matteo
è altro, e in particolare il ruolo che egli ha avuto, quale magistrato della
procura di Palermo, nei processi per la “trattativa Stato-mafia” e per la
mancata cattura di Bernardo Provenzano. La invito a evitare che il Csm si
presti a compiere quella che non potrebbe che essere considerata una
rappresaglia ai danni di Nino Di Matteo.
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