Rino Giacalone – Liberainformazione
16 Settembre 2018
16 Settembre 2018
Matteo Messina Denaro, Leoluca
Bagarella e Giuseppe Graviano. Furono i tre famigerati boss mafiosi, dei quali
solo il primo resta ancora latitante, che il 14 settembre del 1992 cercarono di
uccidere l’allora dirigente del commissariato di Mazara, Rino Germanà,
diventato poi questore e in pensione da poco tempo. Germanà riuscì a sfuggire
al piombo mafioso, restò ferito ma si salvò, ma da quel giorno lo Stato nella
lotta alla mafia decise di fare a meno di uno dei suoi più preziosi
investigatori. Germanà infatti fu trasferito lontano dalla Sicilia, per
concludere la sua carriera da Questore di Piacenza. Un attentato che resta
ancora senza completa verità, ci sono state le condanne per esecutori e la per
la cupola mafiosa, ma ancora non si conosce il perché Germanà doveva morire in
quell’anno delle stragi di mafia. Germanà è stato sentito nel processo per la
“trattativa”. Così ha risposto ai giudici del collegio presieduto dal giudice
Montalto.
“Nel giugno 1992 venni trasferito
dalla Criminalpol al Commissariato di Mazara del Vallo pochi giorni dopo avere
presentato il rapporto al vicecapo della Polizia Luigi Rossi in cui indagavo su
un un parlamentare vicino all’ex ministro Mannino”. Pochi giorni prima della
strage di Capaci, “intorno al 20 maggio 1992”, Germana’ fu chiamato dall’allora
vice capo della Polizia Luigi Rossi, che era a capo della Criminalpol, che gli
chiese se dal rapporto fosse emerso il nome del ministro Calogero Mannino. “Io
risposi al Prefetto Rossi, non mi pare ci sia qualcosa di specifico, ma c’era
timore reverenziale nei suoi confronti e quindi aggiunsi, mi dia tempo di
ricontrollare le carte. Poi chiamai il Prefetto Rossi e gli dissi: si fa
riferimento a Mannino. Due giorni dopo ci fu la strage di Capaci”.
Appena due settimane dopo, cioè
il 7 giugno del 1992 Rino Germanà venne trasferito a sorpresa dalla Criminalpol
a dirigere il Commissariato di Mazara del Vallo dove aveva già prestato
servizio. Per lui era come fare una marcia indietro nella sua carriera che lo
aveva visto anche capo della Squadra Mobile di Trapani. “Tornai a dirigere il
commissariato senza averlo mai chiesto – raccontò Germanà in aula -. Appresi
per caso di essere stato trasferito a Mazara la domenica, ricordo che era il 7
giugno 92, dal dirigente del Commissariato di cui avrei preso il posto, il
dottor Franchina. “Sai chi verra? Tu, mi disse ma io non ne sapevo nulla. Presi
servizio l’8 giugno. Ne parlai anche con il Procuratore di Marsala Paolo
Borsellino prima di prendere servizio a Mazara”. “A luglio, quando Borsellino
fece il saluto di commiato da Marsala per andare a Palermo – disse ancora
Germanà – mi prese in disparte e mi disse: Rino, preparati a venire a Palermo,
invece di stare a Mazara”. Poi la strage di via d’Amelio, il 19 luglio 1992.
Il 14 settembre 1992 Germanà
venne ferito nell’agguato mafioso tesogli dai più terribili mafiosi siciliani,
ma rimase miracolosamente vivo. Sui “contatti” con l’ex ministro Mannino
Germanà ricordò ai giudici una telefonata del cugino, Virginio Amodei, nel
giugno 1992. “Nel giugno mio cugino mi chiamò al telefono per dirmi che il
ministro Calogero Mannino mi voleva parlare, ma io mi rifiutai e decisi di non
andare”. C’è aria di una “trattativa” tra Stato e mafia anche in questa brutta
vicenda siciliana. Tant’è che Germanà è stato uno dei testi del processo sulla
cosiddetta trattativa Stato mafia.
Germanà in Sicilia, e dal fronte
trapanese, si era occupatodi indagini su mafia, politica, massoneria, investigò
sui flussi finanziari che riguardavano la mafia e le banche vicine alla mafia .
Entrò nelle banche, resta famoso il rapporto che redasse sulla Banca Sicula
della famiglia D’Alì. Un comune denominatore delle sue tante indagini era
stato, tra gli altri, tal notaio Pietro Ferraro, castelvetranese, nome
ricorrente nelle indagini tra mafia, massoneria e politica. Ferraro che, così
per dire di che si tratti, era socio nel villaggio turistico Kartibubbo , ora
confiscato all’imprenditore Calcedonio Di Giovanni, o ancora lo si ritrova a
fare da anello di collegamento con mafiosi mazaresi, oppure indicato come il
personaggio che telefonò al presidente della Corte di Assise di Palermo,
Salvatore Scaduti, raccomandando “a nome di un politico democristiano di area
manniniana ma trombato”, così è scritto in atti giudiziari, gli imputati del
processo per l’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile.
Ecco, Germanà su incarico di
Borsellino si stava occupando proprio di questo. Germanà non impiegò molto
tempo a capire chi era il politico che si interessava al processo dove Scaduti
era presidente, si trattava di Vincenzo Inzerillo, ex segretario particolare
del ministro della Difesa Ruffini, poi schieratosi sotto l’ala di Lillo
Mannino. Mentre indagava sui due politici Germanà fu chiamato a Roma, al
Viminale: il prefetto Luigi Rossi, capo della Criminalpol, vice capo della
Polizia, gli chiese di quelle indagini.
I giorni dell’attentato erano
terribili a Mazara, poche settimane dopo l’amministrazione comunale andò in
crisi, e scattò lo scioglimento per inquinamento mafioso. In città giravano
indisturbati i mafiosi più pericolosi, anche quelli che Germanà anni prima
aveva denunciato e fatto arrestare. A capeggiare il clan il potente Mariano
Agate, latitante a Mazara c’era anche Totò Riina. Mazara appariva come una
sorta di “zona franca” per Cosa nostra, protetta da un intreccio, da un
concentrato incredibile di connessioni tra mafia e massoneria, il notaio
Ferraro e il senatore Inzerillo erano lì di casa. Quest’ultimo addirittura
avrebbe partecipato ad un summit con Matteo Messina Denaro come racconterà il
pentito Sinacori, reo confesso della partecipazione all’agguato a Germanà,
mentre il giorno dell’attentato a dare la “battuta”, ossia avvertire il
commando che Germanà era uscito dal commissariato, fu Diego Burzotta, fratello
dell’allora consigliere comunale Pino Burzotta.
Poche ore dopo il tentato
omicidio, Rino Germanà comparve in tv, davanti le telecamere della Rai,
affiancato dall’allora ministro degli Interni Nicola Mancino. Poi sparì dalle
indagini antimafia. “Abbiamo uno Stato –
dissero i pm De Francisci e Tarondo nella loro requisitoria al processo anche
per il tentato omicidio di Rino Germanà – che sa piangere i suoi morti ma non
sa celebrare chi sconfigge Cosa nostra”. Quel giorno della loro requisitoria
nell’aula bunker del carcere di Trapani nessuno degli imputati si presentò,
disertarono l’udienza.
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