Stefano Allievi – Vita
03 Settembre 201
03 Settembre 201
Lo scandalo delle cooperative che
gestivano le strutture per stranieri di Cona e Bagnoli è tutto tranne che
inaspettato. Certo, la gravità di quanto accaduto in quelle strutture è
inaudita, ma riconducibile a una fattispecie comprensibile: quella della
criminalità a scopo di lucro. Associazioni a delinquere che pensano solo a fare
più soldi possibile, senza nessun riguardo per gli immigrati ospitati e per chi
ci lavorava. Colpiscono tuttavia le dimensioni delle strutture, e quindi dei
soldi che girano: frutto della bulimia di arricchimento di alcuni e della
miopia della politica, implicitamente alleati. Le coop e le associazioni serie,
proprio perché serie, nemmeno partecipavano ai bandi per le grandi strutture:
perché inadatte a qualsiasi politica di integrazione. Chi partecipava, allora?
Chi voleva fare soldi: magari con qualche copertura politica, in questo caso di
destra, con buona pace di chi accusa la sinistra di sfruttare il business
dell’immigrazione. Ma faceva comodo anche al governo nazionale: che attraverso
i prefetti trovava soluzioni facili all’emergenza, sia pure al prezzo di
‘arrangiare’ e aggirare i problemi. E pure all’opposizione, che in regione è
governo: così poteva continuare a non occuparsi del problema, con una
dissennata campagna di sostegno ai sindaci che di richiedente asilo non ne volevano
nemmeno uno – creando così le condizioni per la necessità di grandi strutture,
unica alternativa alla mancanza di accoglienza diffusa.
La pecca più grande del
precedente governo (che pure ha fatto molto per diminuire gli sbarchi
irregolari: una politica i cui effetti proseguono tuttora) è stata quella di
non predisporre nulla di significativo a livello di accoglienza: se non a
livello di gestione – affidata ad altri soggetti – almeno di controllo. Certo,
si sono lodevolmente attuati gli SPRAR: progetti gestiti dagli enti locali,
mediamente con un buon livello di efficienza nel favorire l’integrazione dei
soggetti coinvolti. Ma il grosso dell’accoglienza passa tuttora per i CAS, i
centri di accoglienza straordinaria: e in mezzo a quelli professionali e
competenti, hanno avuto buon gioco gli albergatori senza arte né parte, le
imprese che si sono riciclate da attività completamente diverse (coop di
servizi, gestione badanti, ecc.) – perché tutti, indistintamente, sono stati
imbarcati, accettati e finanziati. Senza nessuna preparazione previa, senza
protocolli veramente cogenti (di formazione degli operatori, spesso
improvvisati, e soprattutto di formazione degli utenti, in termini di lingua,
cultura, formazione professionale). Infine, è mancato il controllo. È vero:
data l’emergenza sbarchi degli anni scorsi (oggi però finita), si doveva fare
in fretta a collocare le persone d’urgenza, magari nottetempo. Ma avrebbe
dovuto partire subito una task force di controllo efficace, rigorosa e
competente, a livello nazionale. Che girasse sistematicamente le strutture,
depennasse quelle inefficaci non rinnovando le convenzioni ed escludendole dai
bandi futuri, e creasse protocolli di comportamento sempre più dettagliati e
verificati di continuo. Così non si è fatto. Così, sorprendentemente, si
continua a non fare. Per dire: sono ancora aperte (e finanziate) persino le
strutture che – dalla Sicilia al Veneto – sono state oggetto di inchieste della
magistratura, e per giunta in molti casi sono ancora in mano agli stessi
soggetti, magari sottopostisi al cambiamento cosmetico della ragione sociale.
Tutto ciò è intollerabile. Nei
confronti di chi lavora professionalmente, che da questo non ricava alcun
vantaggio (e anzi subisce un discredito che non merita). E soprattutto nei
confronti degli italiani che pagano con le loro tasse le strutture che lavorano
male, che rischiano di produrre devianza ed estraneità sociale anziché
integrazione ed inclusione. Sgombriamo il campo da un argomento troppo spesso
avanzato: il problema dell’Italia non è che spende troppo (spende meno di molti
altri paesi); è che spende male, producendo accoglienza (spesso al minimo:
vitto e alloggio) ma non integrazione – che non sarebbe spesa improduttiva, ma
investimento per il nostro paese. Continuare a non capirlo rischia di produrre
ulteriori casi di mala gestione, ma soprattutto crea le condizioni
dell’emarginazione sociale di troppi. La sicurezza la produce l’integrazione
ben fatta, spendendo in studio obbligatorio della lingua e della cultura, in formazione
professionale e orientamento al lavoro. Eppure anche chi promette più
sicurezza, non ha cambiato prassi: al limite promette la diminuzione della
spesa, che porterebbe invece al risultato opposto.
dal
blog stefanoallevi.it del sociologo pubblicato il 29 agosto 2018
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