Francesca Sironi – L’Espresso
17 Settembre 2018
Il deserto avanza. E il sistema
che dovrebbe dare futuro alle nuove piante ne lascia invece seccare una su
quattro. Dei 590 mila ragazzi che a giorni inizieranno le superiori, 130 mila
non arriveranno al diploma. Abbandoneranno cioè l’istruzione statale prima dei
18 anni. Significa che in ogni classe, con i suoi 27 neoalunni che si
conosceranno a breve, alla prima campanella, sei scompariranno dall’aula prima
del traguardo. Diranno addio agli studi prima di averli portati a termine. La
dispersione scolastica - che per molti dovremmo chiamare piuttosto “falla” scolastica
- è un’ipoteca sul presente e il futuro di intere generazioni.
La misura di questa crepa viene
restituita ora da un dossier della rivista specializzata Tuttoscuola.
Confrontando il numero di quanti sono entrati in istituti tecnici,
professionali o licei e quanti ne sono usciti cinque anni dopo con un titolo,
dal 1995 a oggi, Tuttoscuola mostra infatti come l’Italia abbia perso lungo la
strada tre milioni e mezzo di studenti dal 1995 a oggi.
È una voragine: il 30,6 per cento
degli iscritti scomparso. Registrato come assente all’appello e di lì lasciato
alla deriva. Certo, in questi oltre vent’anni sono stati alzati argini, spesso
grazie a iniziative esterne, di volontari e associazioni. E il tasso di
abbandono è diminuito: nel 2018 hanno detto addio in anticipo ai professori
151mila ragazzi, il 24,7 per cento del totale, contro il 36,7 del duemila. È un
miglioramento, ma non una vittoria, una tendenza che non può distrarre dalla
crisi. Perché l’incuria intorno e lo sconforto interno che portano gli
adolescenti a far cadere i manuali prima di averli letti, sono gli stessi
spettri che rischiano poi di trattenerli a lungo in quella macchia che è la
conta triste dei Neet, di cui l’Italia detiene un primato europeo: giovani che
non studiano né lavorano, che non vedono alcuna prospettiva all’orizzonte. È il
vuoto lattiginoso dentro cui è chiuso un ventenne su tre al Sud; in tutto il
paese, sono oltre due milioni. «Si può evitare questa immane, ennesima
catastrofe culturale, economica e sociale, che avviene proprio davanti ai
nostri occhi disattenti e rassegnati?», si chiede Giovanni Vinciguerra,
direttore di Tuttoscuola, introducendo il dossier, “La scuola colabrodo”: «Per
farlo di sicuro bisogna partire dal sistema scolastico».
La domanda dovrebbe occupare
trasversalmente i dibattiti. Scuotere più di un ministero. Ma i leader, di
qualsiasi colore siano, sembrano impegnati piuttosto a promettere unzioni
universali e bonus che non a guardare a questa prevenzione necessaria per
l’infrastruttura stessa del paese, quella umana.
Per provare allora ad attirare
più attenzione, Tuttoscuola ha fatto anche dei conti. In denaro: ha calcolato
quanto ci costa questo spreco generazionale. Partendo dalla stima Ocse per cui
lo Stato investe poco meno di settemila euro l’anno a studente, per
l’istruzione secondaria. Il costo degli abbandoni - misurato correttamente, in
base a quanti lasciano dopo uno o due anni, e così via - si misura allora in
cinque miliardi e 520 milioni solo considerando i cicli scolastici 2009-2014 e
2014-2018. Cinque miliardi bruciati in nove appelli d’inizio settembre.
Ancora non importa a nessuno,
questo spreco? Guardando ai 23 anni presi in considerazione dal dossier
(1995-2018), la cifra diventa addirittura vertiginosa: 55,4 miliardi di euro. È
la misura di un fallimento sociale, oltre che economico, enorme. E che ne
racchiude altri, perché come ricorda il rapporto di Tuttoscuola, più istruzione
significa anche più lavoro, più salute, più democrazia. Mentre lasciar seccare
l’insegnamento, e la sua copertura, significa togliere strumenti e possibilità
agli attuali e prossimi cittadini, quindi all’Italia come paese.
Ne parla con un’indignazione
immutata e con l’urgenza di chi preme perché le cose cambino Cesare Moreno,
maestro elementare dal 1983, tra i fondatori di “progetto Chance” che si occupa
a Napoli del recupero di alunni scappati dai banchi, e oggi presidente di
Maestri di strada. «Se rottamiamo un giovane su tre senza averlo mai impiegato non
è una questione che riguarda solo la scuola. È un disastro per l’intera
società», attacca. Le cause? Per lui stanno in «un rapporto intergenerazionale
che fa schifo, per usare un eufemismo, e in un sistema educativo a cui continua
a mancare un pezzo fondamentale: abbiamo una scuola parolaia, ancorata alla
cattedra, mentre servono più pratiche, meno prediche». Più laboratori, che
coinvolgano i giovani da protagonisti. E soprattutto, insiste, più ascolto.
In Campania, mostrano i dati di
Tuttoscuola, l’abbandono è altissimo: il 29,2 per cento degli studenti non
arriva al diploma: il tasso più alto dopo la Sardegna, dove gli addii (su un
corpo studentesco più piccolo, ovviamente) sono il 33 per cento.
Ma quali sono le parole che usano
i ragazzi per raccontare il motivo che li ha portati ad andarsene?
Principalmente due, racconta Moreno. «La prima è “sfastidio”, che in napoletano
significa: mi annoio. È un’ombra estesa a tutto: allo studio, al gioco, alla
vita». Lo spleen ch’era patrimonio esistenziale delle élite sartriane ha preso
largo spazio nel sottoproletariato, dice Moreno, come assenza di speranza e
prospettive. Come deserto che si presenta tale soprattutto a chi non ha
strumenti per trovare la propria rotta. «Non riusciamo a presentare ai ragazzi
una versione del mondo in cui ci sia posto per loro, diceva Jerome Bruner. Nel
labirinto di scelte e di opzioni che s’apre oggi di fronte ai giovani, in
questa confusione dove ogni cosa va inventata, non sappiamo aiutarli a
comprendere quello che è giusto per loro». La seconda voce ricorrente nei
discorsi sospesi di chi ha lasciato i libri è, aggiunge: “tengo problemi”,
ovvero l’attitudine a descriversi attraverso i propri difetti. Come vittime,
portatori di deficit. Invece di lavorare sul proprio desiderio, sono fermi a
raccontarsi nel bisogno». Perché non riescono ad ascoltarlo, quel desiderio,
non vedono un’aspirazione possibile. Perché mancano loro bussole per
orientarsi. E quelle rimaste in classe sembrano troppo spesso coperte di
polvere.
«Lo zaino che preparo alle mie
figlie ha dentro le stesse cose, gli stessi autori spesso, che portavo io sulle
spalle trent’anni fa. Il mondo fuori nel frattempo è diventato un altro film.
Ma la scuola è rimasta in molte parti immobile». Simona Ravizza dirige una
struttura contro la dispersione nel centro di Monza, per l’associazione Antonia
Vita. Uno spazio dove si offre sostegno a chi sta per allontanarsi dalle medie
o non riesce a portarle a termine.
«Non facciamo altro che dare
attenzione, in realtà. Per spiegare perché non riuscivano a stare in classe, i
ragazzi ci dicono: “la prof non perdeva tempo a farmi capire”, “mi sembrava di
essere scemo”. Ma è proprio da questa svalutazione, da questo sentirsi
“cretini” che inizia spesso l’abbandono», dice. «Far capire che ti importa di
loro, invece, che non molli, che te ne frega, permette di cambiare prospettiva.
Di scoprire ad esempio un bambino dotatissimo in matematica, come ci è successo
l’autunno scorso, che faticava in aula perché gli mancava sempre qualcosa: un
quaderno, una firma, un compito. E la maestra si spazientiva».
Quei pezzi che mancano nello
zaino sono a loro volta segnali di un disagio difficile da colmare, però, e che
inizia a casa. «Anche qui in Brianza abbiamo visto aumentare molto la povertà,
negli ultimi anni, fra italiani come nelle famiglie straniere», continua
Ravizza: «Offriamo la colazione, la mattina, perché diversi nostri alunni
altrimenti non la fanno. O li lasciamo restare al pomeriggio perché nella loro
stanza non avrebbero il riscaldamento fino a sera». La povertà, ricorda Save
The Children, riguarda oggi oltre un milione di bambini. La crisi ha tolto loro
coperte, servizi, pasti abbastanza nutrienti ogni giorno. E sembra aver reso
ancora più difficile la possibilità di scavalcare il guado del censo, più
iniqua la strada che inizia dal primo anno di scuola e accompagna al futuro.
«In una ricerca che pubblicheremo a breve abbiamo dimostrato come ogni
bocciatura aumenti di sei volte il rischio di abbandono. E chi sono i bocciati?
In larga parte: i più poveri. I figli dei redditi più bassi. So che arriveranno
diverse testimonianze di eccezioni: ma è una realtà statistica», spiega
Federico Batini, professore associato di Pedagogia sperimentale all’Università
di Perugia, e autore di numerosi studi e interventi progettuali sulla
dispersione: «La scuola rischia di dimostrarsi così ancora come un’agenzia di
selezione. È allora necessario ripensare i sistemi di valutazione e le pratiche
didattiche». Come invertire l’eredità dell’esclusione che si porta in aula come
una tara, e rischia di tenere ai margini anche chi riceve formalmente
un’istruzione? Come fermare la desertificazione dell’abbandono scolastico?
«Intanto ribadendo un’indicazione semplice e chiara: bisogna attivarsi per far
recuperare e potenziare le competenze di base. Ripartire dalla comprensione del
testo, ad esempio. Perché sono le fondamenta, oggi, a mancare ai ragazzi», dice
Batini. Spesso pure fra chi ottiene un diploma, surfando su nozioni senza
conquistarle, arrivando al traguardo senza la capacità di afferrare pienamente
i significati letti. Senza avere insomma gli strumenti che servono per
decidere. È una sconfitta immane, per una democrazia. Tanto più ingiusta quanto
più disuguale: come mostra il rapporto di Tuttoscuola, da un liceo classico si
allontana in anticipo “solo” il 17,7 per cento degli iscritti. Negli istituti
professionali statali - dove va pure meglio che un tempo - dei 140mila alunni
che avevano iniziato il percorso ai primi di settembre del 2013, soltanto
95mila hanno concluso a giugno con un diploma. Gli altri - uno su tre - hanno
desistito. E nessuno li è andati a cercare. Magari si sono rivolti a strutture
private, o alla formazione regionale, là dove funziona. Ma intanto, di certo,
lo Stato ha rinunciato.
E sì che per rafforzare quelle
fondamenta necessarie non servirebbero per forza acrobazie sperimentali o piani
didattici iper-specialistici, burocratici o costosi. Anzi. Basterebbe, ad
esempio, leggere più spesso ad alta voce. «Un progetto che abbiamo appena
concluso in Toscana, “No Out” prevede l’introduzione di giochi collaborativi
basati su compiti di realtà, ma soprattuto la lettura quotidiana di testi
letterari ad alta voce, in classe», spiega Batini: «I risultati, rafforzati dal
confronto con chi non aveva partecipato al test, ci hanno confermato un
elemento su cui in molti insistiamo da tempo: la lettura ad alta voce ha un
impatto straordinario non solo su tutte le funzioni cognitive. Ma anche sulle
emozioni». Quindi sulla capacità di essere empatici. E sulla possibilità,
banalmente, di creare classi (prima ancora che una società) dove si vive
meglio: un altro elemento che conta, parecchio, nelle dinamiche che portano
all’auto-esclusione da scuola.
L’ostilità o l’indifferenza dei
compagni emergono come radici in tante storie di abbandono. Insieme alla
mancanza di tempo dedicato loro dagli insegnanti. Anche questi mortificati, da
piani di ingresso che, ricorda Tuttoscuola, dovrebbero farsi «veramente
selettivi» per premiare i migliori; da riforme che centrifugano priorità e
investimenti a ogni legislatura; da stipendi più bassi della media europea e
che progrediscono poco con l’anzianità; da protagonismi a volte eccessivi delle
famiglie; da condizioni insomma che portano gli stessi prof, a loro volta, alla
fuga. «Serve un nuovo patto», conclude Vinciguerra. Un patto che porti acqua
all’ascolto e alla centralità della scuola pubblica nella nostra democrazia.
L’unica risposta possibile per prevenire l’avanzata del deserto.
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