mercoledì 1 agosto 2018

MIGRANTI Respingimenti collettivi vietati, Tunisia e Libia non sono “paesi terzi sicuri”


“Ormai violare il diritto internazionale e condannare centinaia di persone a trattamenti inumani o degradanti nei paesi di transito, se non a morire in mare per abbandono, è diventato “una sfida all’Europa”, con l’avallo dei sovranisti e delle destre di tutto il mondo, da Trump ad Orban. Come vogliono a Washington ed a Mosca, con il pretesto della lotta ai trafficanti, Salvini “smonta l’Europa”.

Fulvio Vassallo, Progetto Melting pot Europa 
02 Agosto 2018

Dopo il caso ancora aperto dei migranti salvati nella zona SAR maltese e quindi a bordo del rimorchiatore SAROST 5, di fatto respinti verso la Tunisia per effetto del mancato coordinamento dei soccorsi delle autorità (MRCC) di La Valletta e di Roma, malgrado la disponibilità concessa dopo settimane di attesa in mare dalle autorità tunisine, si profila un vero e proprio respingimento collettivo, questa volta verso le coste libiche, con decine di migranti che oggi sono stati sbarcati nel porto di Tripoli dal rimorchiatore italiano ASSO 28, “coordinato dalla Guardia costiera libica”.
Ormai violare il diritto internazionale e condannare centinaia di persone a trattamenti inumani o degradanti nei paesi di transito, se non a morire in mare per abbandono, è diventato “una sfida all’Europa”, con l’avallo dei sovranisti e delle destre di tutto il mondo, da Trump ad Orban. Come vogliono a Washington ed a Mosca, con il pretesto della lotta ai trafficanti, Salvini “smonta l’Europa”.
Si ripete un respingimento collettivo, dopo che Minniti aveva creato con il precedente governo, con gli accordi con Serraj e la Guardia costiera di Tripoli (libica soltanto di nome), formalizzati nel Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017, i precedenti per la esecuzione di operazioni di push back, sulla base dei Protocolli operativi firmati nel 2007 e poi recepiti dal Trattato di amicizia tra Italia e Libia sottoscritto nel 2008.
Il trasferimento dei naufraghi verso il porto di Tripoli, nella base militare di Abu Sittah, luogo di attracco stabile della nave Caprera della missione italiana Nauras, indipendentemente dalle autorità che lo abbiano ordinato, costituisce un respingimento collettivo analogo a quello effettuato il 6 maggio 2009 dalla Guardia di finanza su ordine di Maroni. Che poi è costato all’Italia una denuncia e quindi nel 2012 una condanna definitiva dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo (caso Hirsi). Questa volta però non si vede chi raccoglierà le procure dei ricorrenti, e chi farà ricorso, potrebbe essere fatto scomparire facilmente nei centri lager in Libia. Presto l’attacco al soccorso umanitario e la legittimazione delle violazioni più gravi del diritto internazionale potrebbero venire dal richiamo al pericolo del terrorismo, sull’onda di un episodio isolato, il soccorso dell’attentatore suicida di Manchester operato da una nave inglese nel 2014, che rischia però, a livello mediatico, di demolire definitivamente la legittimità delle operazioni di ricerca e salvataggio operati a nord delle coste africane. Neanche una parola per le migliaia di persone morte o disperse in mare sulla rotta del Mediterraneo centrale, ridotte evidentemente alla categoria nazista di subumani (untermenschen).
Negli ultimi casi di soccorso in acque internazionali, a notevole distanza dalle coste libiche, sono stati coinvolti, non si conosce se su indicazione di una autorità SAR o in modo autonomo, rimorchiatori di servizio alle piattaforme petrolifere di Farwah (nel caso della SAROST 5 in collegamento con diverse compagnie petrolifere), e di Sabratha/Bouri Field (nel caso dell’ASSO 28, in collegamento con l’ENI e con la società libica di stato NOC).
Unità commerciali di supporto alle attività di piattaforme petrolifere che operano in aree fortemente presidiate da unità militari di diversi paesi, nei quali è maggiore il coordinamento tra la Marina militare italiana e le autorità libiche e tunisine. Sembra però che i mezzi militari non vedano più i migranti, malgrado i sofisticati sistemi di tracciamento radar e di rilevazione satellitare, e che i “soccorsi” siano effettuati in prevalenza da motovedette tunisine e libiche, adesso da rimorchiatori privati, dopo che le ONG sono state allontanate con le minacce, con le calunnie e con i procedimenti penali aperti in Italia ed a Malta.
Strumento essenziale per camuffare i respingimenti collettivi delegati alla guardia costiera libica, che libica non è, la istituzione di una zona SAR “libica”, autoproclamata dal governo di Tripoli, che alla fine di giugno la ha notificata all’IMO, dopo che in precedenza era emerso chiaramente che lo stesso governo Serraj non disponeva né dei mezzi navali né del centro di coordinamento nazionale, che sarebbero richiesti perché possa essere riconosciuta una zona sar davvero “libica”.
Colpisce anche che, mentre i data base del’IMO (Organizzazione delle Nazioni Unite per il mare) hanno da poco inserito alcuni riferimenti riguardanti la zona SAR libica, omettono qualsiasi richiamo ad una zona SAR tunisina, come se questa non esistesse o non fosse stata mai notificata all’IMO. La grande situazione di incertezza sulle autorità competenti ad intervenire nei soccorsi in acque internazionali nel Mediterraneo centrale ed a indicare un porto sicuro di sbarco, che non è necessariamente quello più vicino, aumenta le vittime in mare e sta mettendo a rischio anche la navigazione delle navi commerciali, sempre più spesso coinvolte in interventi SAR (ricerca e salvataggio).
Risultato di queste (non) decisioni dell’IMO, imposte dai governi che intendevano esternalizzare le pratiche di respingimento collettivo, una crescita esponenziale di naufragi nella rotta del Mediterraneo centrale, la più pericolosa del mondo, con ulteriori minacce alle ONG che ancora operano attività SAR. Mentre le operazioni di ricerca e soccorso che sempre più spesso, malgrado siano operate a 70-80 miglia dalla costa, in acque internazionali, nelle quali in passato il coordinamento era affidato alla centrale MRCC di Roma, si concludono con lo sbarco dei naufraghi in Tunisia ed in Libia.
Dopo lo sbarco in questi paesi terzi, ritenuti adesso Place of safety, malgrado la presenza in banchina di qualche operatore UNHCR ed OIM, i migranti si trovano di fronte all’alternativa tra un lungo limbo di attesa in un centro di acoglienza chiuso in Tunisia, se non una terribile detenzione in Libia, e la richiesta di un rimpatrio volontario. Sempre che non ricadano prima nelle mani delle organizzazioni crimninali per un altro tentativo disperato di fuga verso l’Europa. Sia in Tunisia che in Libia, malgrado le situazioni assai differenti quanto al riconoscimento dei diritti umani, non vi è una legislazione effettiva sul diritto di asilo, ed anche le persone seguite dall’UNHCR non hanno alcuna prospettiva certa di ritrasferimento, o di ottenere uno status legale di soggiorno là dove hanno riconosciuto il diritto alla protezione. La Libia peraltro non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ed il governo Serraj, a Tripoli, non è neppure in grado di garantire controllare il territorio della città nella quale risiede, e la sicurezza dei suoi cittadini. La Tunisia d’altro canto, non riconosce uno status legale di soggiorno neppure a quei pochi richiedenti asilo che vengono riconosciuti dall’UNHCR in base alle restrittive regole della Convenzione di Ginevra.
Le Convenzioni internazionali chiariscono molto bene cosa si deve intendere per Place of safety, porto sicuro di sbarco. In base al diritto internazionale, un paese terzo si può definire come paese terzo sicuro , e dunque garantire un POS (Place of safety), quando:
non sussistono minacce alla vita e alla libertà del richiedente per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;
  • non sussiste il rischio di danno grave (quale definito nella normativa europea sulle qualifiche di protezione);
  • è rispettato il principio di non-refoulement conformemente alla Convenzione di Ginevra;
  • è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, inumani o degradanti sancito dal diritto internazionale;
  • esiste la possibilità di godere, secondo il caso, di protezione in virtù delle norme sostanziali della Convenzione di Ginevra o di protezione sufficiente ai sensi della normativa europea.
In definitiva la sicurezza del paese va valutata in base agli standard dei Trattati e delle Costituzioni europee, e non in base a valutazioni di comodo basate sul calcolo politico o su accordi bilaterali.
Da tempo anche i rappresentanti di Frontex escludono che i migranti soccorsi in acque internazionali possano essere ricondotti in Libia o in Tunisia. “Come ha tenuto a precisare Izabella Cooper, portavoce di Frontex, se esiste una precisa differenza tra “porto sicuro” e “porto più vicino”, rimangono espressamente esclusi i due Paesi extra-Unione Europea interessati dai flussi migratori, la Libia e la Tunisia, per via delle violazioni dei diritti umani e dell’assenza di un sistema di asilo. Tuttavia, non è del tutto escluso che i migranti possano essere portati in Libia e Tunisia, come d’altronde già accade”.
Per queste ragioni suonano come deridenti quelle posizioni di rappresentanti dell’UNHCR che, a margine del caso del rimorchiatore Sarost, affermano che i migranti soccorsi in mare non avrebbero diritto di scegliere il paese nel quale chiedere asilo, e che alcune ONG, pur meritevoli per i salvataggi in mare, svolgerebbero attività di lobby, insinuando dunque che siano queste organizzazioni ad orientare le scelte dei richiedenti asilo in ordine al paese al quale rivolgersi. Come se questa materia non fosse rigidamente disciplinata da norme internazionali, oltre che da Convenzioni e direttive europee, che tutti dovrebbero conoscere e che le ONG rispettano, mentre sono gli stati che le violano continuamente, ritardando i soccorsi, contravvenendo al divieto di respingimento e praticando di fatto vere e proprie espulsioni collettive. Intanto diverse navi delle ONG rimangono sotto sequestro in Italia ed a Malta, e mancano sia i soccorritori che i testimoni delle gravi violazioni del diritto internazionale perpetrate dagli stati.
Qualsiasi rappresentante dell’ONU dovrebbe avere chiare le regole di soccorso in mare e di riconoscimento del diritto di richiedere asilo decise dalla sua stessa organizzazione ed i rapporti sulla Tunisia pubblicati nei siti delle Nazioni Unite ad uso degli operatori. Un paese terzo sicuro si può riconoscere quando ne presenta i requisiti ed offre porti sicuri di sbarco, quindi Place of safety (POS) in conformità con le Convenzioni internazionali. 
Amnesty International ed Human Right Watch esprimono da tempo preoccupazioni sulla effettiva portata del riconoscimento dei diritti umani in Tunisia, malgrado qualche recente progresso.
Proprio mentre il caso Sarost restava drammaticamente aperto, le autorità italiane hanno posto in essere un vero e proprio respingimento collettivo, per interposta SAR libica, cedendo alle autorità di Tripoli, da mesi coordinate dalla Marina militare italiana, la responsabilità di salvataggio operato in acque internazionali a 70 miglia dalla costa. E quindi dando alle medesime autorità la possibilità di indicare il porto di sbarco, a Tripoli, nella base militare di Abu Sittah, dove da mesi si concludono le operazioni di intercettazione in alto mare affidate alla sedicente Guardia costiera “libica”. Quanto avvenuto segue di pochi giorni il comportamento incerto dell’UNHCR sul caso della Sarost bloccata per giorni con il suo carico di disperazione davanti al porto di Zarzis, ed il voto con una maggioranza “bulgara” al Senato in favore degli accordi con la Libia del governo Serraj e con la Guardia costiera di Tripoli.
I tracciati evidenziano chiaramente che i soccorsi operati dal rimorchiatore italiano Asso 28 si sono verificati in una zona molto prossima alle piattaforme petrolifere del bacino di Bouri Field/Sabratha, una zona che è strettamente presidiata dalla Marina militare italiana, anche per garantire la sicurezza dei lavoratori delle piattaforme e dei mezzi di servizio. Di fatto l’ultima meta raggiungibile partendo con i gommoni dalle coste libiche, dopo che quasi tutte le ONG sono state allontanate, come è avvenuto del resto per le navi della missione Thenis di Frontex e per i mezzi della guardia costiera italiana, che proprio in queste stesse acque, negli anni passati hanno soccorso decine di migliaia di persone. Persone oggi abbandonate al loro destino, in mare, o nei campi di detenzione in Libia, dove sembra raddoppiata in questi ultimi mesi la presenza dei migranti che per i libici sono soltanto “illegali”, donne in gravidanza e minori compresi.
Per queste ragioni, per salvare la vita di queste persone occorre portare avanti il processo di riconciliazione in Libia senza altre competizioni tra gli Stati europei, senza foraggiare milizie che controllano anche i territori dai quali partono i migranti, ma avendo come primo obiettivo la fine del conflitto ed il ristabilimento dello stato di diritto in un paese finalmente riunificato. 
Nel frattempo vanno salvaguardate le vite delle persone che comunque continueranno a fuggire dai centri di detenzione e da condizioni lavorative schiavistiche. Per questo occorre che le missioni internazionali di soccorso siano intensificate e sia fatta chiarezza una volta per tutte sulla nozione di porto di sbarco sicuro e di ripartizione delle competenze a seconda delle diverse zone SAR. Che non possono essere istituite soltanto con un tratto di penna, per marcare accordi politici o aree di influenza economica, ma che devono tenere in maggiore considerazione la salvaguardia della vita umana in mare.

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