“Ormai
violare il diritto internazionale e condannare centinaia di persone a
trattamenti inumani o degradanti nei paesi di transito, se non a morire in mare
per abbandono, è diventato “una sfida all’Europa”, con l’avallo dei sovranisti
e delle destre di tutto il mondo, da Trump ad Orban. Come vogliono a Washington
ed a Mosca, con il pretesto della lotta ai trafficanti, Salvini “smonta
l’Europa”.
Fulvio
Vassallo, Progetto Melting pot Europa
02 Agosto 2018
Dopo il caso ancora aperto dei
migranti salvati nella zona SAR maltese e quindi a bordo del rimorchiatore
SAROST 5, di fatto respinti verso la Tunisia per effetto del mancato
coordinamento dei soccorsi delle autorità (MRCC) di La Valletta e di Roma, malgrado
la disponibilità concessa dopo settimane di attesa in mare dalle autorità
tunisine, si profila un vero e proprio respingimento collettivo, questa volta
verso le coste libiche, con decine di migranti che oggi sono stati sbarcati nel
porto di Tripoli dal rimorchiatore italiano ASSO 28, “coordinato dalla Guardia
costiera libica”.
Ormai violare il diritto
internazionale e condannare centinaia di persone a trattamenti inumani o
degradanti nei paesi di transito, se non a morire in mare per abbandono, è
diventato “una sfida all’Europa”, con l’avallo dei sovranisti e delle destre di
tutto il mondo, da Trump ad Orban. Come vogliono a Washington ed a Mosca, con
il pretesto della lotta ai trafficanti, Salvini “smonta l’Europa”.
Si ripete un respingimento
collettivo, dopo che Minniti aveva creato con il precedente governo, con gli
accordi con Serraj e la Guardia costiera di Tripoli (libica soltanto di nome),
formalizzati nel Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017, i precedenti per la
esecuzione di operazioni di push back, sulla base dei Protocolli operativi
firmati nel 2007 e poi recepiti dal Trattato di amicizia tra Italia e Libia
sottoscritto nel 2008.
Il trasferimento dei naufraghi
verso il porto di Tripoli, nella base militare di Abu Sittah, luogo di attracco
stabile della nave Caprera della missione italiana Nauras, indipendentemente
dalle autorità che lo abbiano ordinato, costituisce un respingimento collettivo
analogo a quello effettuato il 6 maggio 2009 dalla Guardia di finanza su ordine
di Maroni. Che poi è costato all’Italia una denuncia e quindi nel 2012 una
condanna definitiva dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo (caso Hirsi).
Questa volta però non si vede chi raccoglierà le procure dei ricorrenti, e chi
farà ricorso, potrebbe essere fatto scomparire facilmente nei centri lager in
Libia. Presto l’attacco al soccorso umanitario e la legittimazione delle
violazioni più gravi del diritto internazionale potrebbero venire dal richiamo
al pericolo del terrorismo, sull’onda di un episodio isolato, il soccorso dell’attentatore
suicida di Manchester operato da una nave inglese nel 2014, che rischia però, a
livello mediatico, di demolire definitivamente la legittimità delle operazioni
di ricerca e salvataggio operati a nord delle coste africane. Neanche una parola
per le migliaia di persone morte o disperse in mare sulla rotta del
Mediterraneo centrale, ridotte evidentemente alla categoria nazista di subumani
(untermenschen).
Negli ultimi casi di soccorso in
acque internazionali, a notevole distanza dalle coste libiche, sono stati
coinvolti, non si conosce se su indicazione di una autorità SAR o in modo
autonomo, rimorchiatori di servizio alle piattaforme petrolifere di Farwah (nel
caso della SAROST 5 in collegamento con diverse compagnie petrolifere), e di
Sabratha/Bouri Field (nel caso dell’ASSO 28, in collegamento con l’ENI e con la
società libica di stato NOC).
Unità commerciali di supporto
alle attività di piattaforme petrolifere che operano in aree fortemente
presidiate da unità militari di diversi paesi, nei quali è maggiore il
coordinamento tra la Marina militare italiana e le autorità libiche e tunisine.
Sembra però che i mezzi militari non vedano più i migranti, malgrado i
sofisticati sistemi di tracciamento radar e di rilevazione satellitare, e che i
“soccorsi” siano effettuati in prevalenza da motovedette tunisine e libiche,
adesso da rimorchiatori privati, dopo che le ONG sono state allontanate con le
minacce, con le calunnie e con i procedimenti penali aperti in Italia ed a
Malta.
Strumento essenziale per camuffare
i respingimenti collettivi delegati alla guardia costiera libica, che libica
non è, la istituzione di una zona SAR “libica”, autoproclamata dal governo di
Tripoli, che alla fine di giugno la ha notificata all’IMO, dopo che in
precedenza era emerso chiaramente che lo stesso governo Serraj non disponeva né
dei mezzi navali né del centro di coordinamento nazionale, che sarebbero
richiesti perché possa essere riconosciuta una zona sar davvero “libica”.
Colpisce anche che, mentre i data
base del’IMO (Organizzazione delle Nazioni Unite per il mare) hanno da poco
inserito alcuni riferimenti riguardanti la zona SAR libica, omettono qualsiasi
richiamo ad una zona SAR tunisina, come se questa non esistesse o non fosse
stata mai notificata all’IMO. La grande situazione di incertezza sulle autorità
competenti ad intervenire nei soccorsi in acque internazionali nel Mediterraneo
centrale ed a indicare un porto sicuro di sbarco, che non è necessariamente
quello più vicino, aumenta le vittime in mare e sta mettendo a rischio anche la
navigazione delle navi commerciali, sempre più spesso coinvolte in interventi
SAR (ricerca e salvataggio).
Risultato di queste (non)
decisioni dell’IMO, imposte dai governi che intendevano esternalizzare le
pratiche di respingimento collettivo, una crescita esponenziale di naufragi
nella rotta del Mediterraneo centrale, la più pericolosa del mondo, con
ulteriori minacce alle ONG che ancora operano attività SAR. Mentre le
operazioni di ricerca e soccorso che sempre più spesso, malgrado siano operate
a 70-80 miglia dalla costa, in acque internazionali, nelle quali in passato il
coordinamento era affidato alla centrale MRCC di Roma, si concludono con lo
sbarco dei naufraghi in Tunisia ed in Libia.
Dopo lo sbarco in questi paesi
terzi, ritenuti adesso Place of safety, malgrado la presenza in banchina di
qualche operatore UNHCR ed OIM, i migranti si trovano di fronte all’alternativa
tra un lungo limbo di attesa in un centro di acoglienza chiuso in Tunisia, se
non una terribile detenzione in Libia, e la richiesta di un rimpatrio
volontario. Sempre che non ricadano prima nelle mani delle organizzazioni
crimninali per un altro tentativo disperato di fuga verso l’Europa. Sia in
Tunisia che in Libia, malgrado le situazioni assai differenti quanto al
riconoscimento dei diritti umani, non vi è una legislazione effettiva sul
diritto di asilo, ed anche le persone seguite dall’UNHCR non hanno alcuna
prospettiva certa di ritrasferimento, o di ottenere uno status legale di
soggiorno là dove hanno riconosciuto il diritto alla protezione. La Libia
peraltro non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ed il
governo Serraj, a Tripoli, non è neppure in grado di garantire controllare il
territorio della città nella quale risiede, e la sicurezza dei suoi cittadini.
La Tunisia d’altro canto, non riconosce uno status legale di soggiorno neppure
a quei pochi richiedenti asilo che vengono riconosciuti dall’UNHCR in base alle
restrittive regole della Convenzione di Ginevra.
Le Convenzioni internazionali chiariscono
molto bene cosa si deve intendere per Place of safety, porto sicuro di sbarco.
In base al diritto internazionale, un paese terzo si può definire come paese
terzo sicuro , e dunque garantire un POS (Place of safety), quando:
non sussistono minacce alla vita
e alla libertà del richiedente per ragioni di razza, religione, nazionalità,
opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;
- non sussiste il rischio di danno grave (quale definito nella normativa europea sulle qualifiche di protezione);
- è rispettato il principio di non-refoulement conformemente alla Convenzione di Ginevra;
- è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, inumani o degradanti sancito dal diritto internazionale;
- esiste la possibilità di godere, secondo il caso, di protezione in virtù delle norme sostanziali della Convenzione di Ginevra o di protezione sufficiente ai sensi della normativa europea.
In definitiva la sicurezza del
paese va valutata in base agli standard dei Trattati e delle Costituzioni
europee, e non in base a valutazioni di comodo basate sul calcolo politico o su
accordi bilaterali.
Da tempo anche i rappresentanti
di Frontex escludono che i migranti soccorsi in acque internazionali possano
essere ricondotti in Libia o in Tunisia. “Come ha tenuto a precisare Izabella
Cooper, portavoce di Frontex, se esiste una precisa differenza tra “porto
sicuro” e “porto più vicino”, rimangono espressamente esclusi i due Paesi
extra-Unione Europea interessati dai flussi migratori, la Libia e la Tunisia,
per via delle violazioni dei diritti umani e dell’assenza di un sistema di
asilo. Tuttavia, non è del tutto escluso che i migranti possano essere portati
in Libia e Tunisia, come d’altronde già accade”.
Per queste ragioni suonano come
deridenti quelle posizioni di rappresentanti dell’UNHCR che, a margine del caso
del rimorchiatore Sarost, affermano che i migranti soccorsi in mare non
avrebbero diritto di scegliere il paese nel quale chiedere asilo, e che alcune
ONG, pur meritevoli per i salvataggi in mare, svolgerebbero attività di lobby,
insinuando dunque che siano queste organizzazioni ad orientare le scelte dei
richiedenti asilo in ordine al paese al quale rivolgersi. Come se questa
materia non fosse rigidamente disciplinata da norme internazionali, oltre che
da Convenzioni e direttive europee, che tutti dovrebbero conoscere e che le ONG
rispettano, mentre sono gli stati che le violano continuamente, ritardando i
soccorsi, contravvenendo al divieto di respingimento e praticando di fatto vere
e proprie espulsioni collettive. Intanto diverse navi delle ONG rimangono sotto
sequestro in Italia ed a Malta, e mancano sia i soccorritori che i testimoni
delle gravi violazioni del diritto internazionale perpetrate dagli stati.
Qualsiasi rappresentante dell’ONU
dovrebbe avere chiare le regole di soccorso in mare e di riconoscimento del
diritto di richiedere asilo decise dalla sua stessa organizzazione ed i
rapporti sulla Tunisia pubblicati nei siti delle Nazioni Unite ad uso degli
operatori. Un paese terzo sicuro si può riconoscere quando ne presenta i
requisiti ed offre porti sicuri di sbarco, quindi Place of safety (POS) in
conformità con le Convenzioni internazionali.
Amnesty International ed Human
Right Watch esprimono da tempo preoccupazioni sulla effettiva portata del
riconoscimento dei diritti umani in Tunisia, malgrado qualche recente
progresso.
Proprio mentre il caso Sarost
restava drammaticamente aperto, le autorità italiane hanno posto in essere un
vero e proprio respingimento collettivo, per interposta SAR libica, cedendo
alle autorità di Tripoli, da mesi coordinate dalla Marina militare italiana, la
responsabilità di salvataggio operato in acque internazionali a 70 miglia dalla
costa. E quindi dando alle medesime autorità la possibilità di indicare il
porto di sbarco, a Tripoli, nella base militare di Abu Sittah, dove da mesi si
concludono le operazioni di intercettazione in alto mare affidate alla
sedicente Guardia costiera “libica”. Quanto avvenuto segue di pochi giorni il
comportamento incerto dell’UNHCR sul caso della Sarost bloccata per giorni con
il suo carico di disperazione davanti al porto di Zarzis, ed il voto con una
maggioranza “bulgara” al Senato in favore degli accordi con la Libia del governo
Serraj e con la Guardia costiera di Tripoli.
I tracciati evidenziano
chiaramente che i soccorsi operati dal rimorchiatore italiano Asso 28 si sono
verificati in una zona molto prossima alle piattaforme petrolifere del bacino
di Bouri Field/Sabratha, una zona che è strettamente presidiata dalla Marina
militare italiana, anche per garantire la sicurezza dei lavoratori delle
piattaforme e dei mezzi di servizio. Di fatto l’ultima meta raggiungibile
partendo con i gommoni dalle coste libiche, dopo che quasi tutte le ONG sono
state allontanate, come è avvenuto del resto per le navi della missione Thenis
di Frontex e per i mezzi della guardia costiera italiana, che proprio in queste
stesse acque, negli anni passati hanno soccorso decine di migliaia di persone.
Persone oggi abbandonate al loro destino, in mare, o nei campi di detenzione in
Libia, dove sembra raddoppiata in questi ultimi mesi la presenza dei migranti
che per i libici sono soltanto “illegali”, donne in gravidanza e minori
compresi.
Per queste ragioni, per salvare
la vita di queste persone occorre portare avanti il processo di riconciliazione
in Libia senza altre competizioni tra gli Stati europei, senza foraggiare
milizie che controllano anche i territori dai quali partono i migranti, ma
avendo come primo obiettivo la fine del conflitto ed il ristabilimento dello
stato di diritto in un paese finalmente riunificato.
Nel frattempo vanno salvaguardate
le vite delle persone che comunque continueranno a fuggire dai centri di
detenzione e da condizioni lavorative schiavistiche. Per questo occorre che le
missioni internazionali di soccorso siano intensificate e sia fatta chiarezza
una volta per tutte sulla nozione di porto di sbarco sicuro e di ripartizione
delle competenze a seconda delle diverse zone SAR. Che non possono essere
istituite soltanto con un tratto di penna, per marcare accordi politici o aree
di influenza economica, ma che devono tenere in maggiore considerazione la
salvaguardia della vita umana in mare.
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